Steve Hanke, professore di economia applicata alla Johns Hopkins University di Baltimore, ha fatto un calcolo. Ha dato un’occhiata all’andamento della offerta di moneta (M3) e di credito dell’Italia (vedi grafico) e ne ha dedotto che le oscillazioni di umore nei confronti del governo sono spiegabili con l’andirivieni di queste due curve.
Fino all’estate di quest’anno, moneta e credito salgono e così la fiducia in Matteo Renzi. Da settembre il percorso si inverte e scende anche il gradimento del governo. Renzi non ha più molto tempo a disposizione, o riesce a riportare in alto la lancetta del credito spingendo in su l’intera economia, oppure sono guai. L’Italia ricade nella sindrome greca che questa volta si presenta più sotto forma politica, con lo psicodramma sul prossimo presidente della Repubblica e l’incognita di una vittoria di Syriza, la coalizione della sinistra radicale guidata da Alexis Tsipras. Forse Hanke, come tutti gli economisti, taglia con l’accetta una realtà molto più variegata. Ma è difficile dargli torto.
In primavera Renzi aveva presentato un calendario preciso, una riforma al mese. Siamo a Natale e il bilancio è in rosso. Il Jobs Act indubbiamente è una riforma importante, contro la quale sono scesi in piazza Cgil e Uil, tuttavia resta ancora soltanto sulla carta. La riforma viene cento volte fatta e disfatta come la tela di Penelope alla quale è appesa anche la riforma del Senato. Quanto al bilancio pubblico si tratta di un patchwork, una collezione di pezze mille colori.
L’Unione europea e la Bce mettono il dito sull’eccesso di deficit spending destinato a far salire il debito anche nel 2016 quando finalmente dovrebbe fermarsi. Non hanno torto. Anche gettando alle ortiche la vieta polemica sull’austerità, è evidente che il governo ha deciso di passare la nottata, sperando che prima o poi la ripresa (sia pur una ripresina) ci sarà. Così tutto slitta a primavera, quando bisognerà presentare il documento di economia finanza, ma anche quando probabilmente avremo un nuovo presidente della Repubblica che aprirà una fase politica diversa.
Partito per rottamare tutti e riformare tutto, Renzi si è ridotto al piccolo cabotaggio, a galleggiare su una crisi non affrontata con la necessaria determinazione e tempestività. Il suo errore non è aver concesso gli 80 euro, ma non averli inseriti in una cornice più vasta e coerente che avrebbe dato loro un senso diverso, con un impatto probabilmente più efficace sulla stessa domanda interna. Quella cornice, fuor di metafora, si chiama fisco.
E’ evidente che se la pressione fiscale complessiva (che è fatta di imposte sui redditi, sui consumi, sulle case, sui risparmi, sui patrimoni, sull’immondizia, sull’illuminazione stradale, sui tabacchi, sulla benzina e via via balzello dopo balzello) resta la stessa o addirittura cresce, mentre con c’è ripresa e il lavoro viene minacciato, la scelta più razionale è conservare il gruzzoletto per far fronte a tempi ancora peggiori.
Lo stesso errore Renzi lo ha compiuto sul mercato del lavoro. S’è fatto inchiodare in una discussione vecchia e per lo più oziosa sull’articolo 18, invece di rilanciare sull’assegno di disoccupazione per tutti, sulla formazione permanente, sull’agenzia del lavoro, in altre parole sulla parte costruttiva del provvedimento. Si poteva fare di più? Forse, ma non se ne è nemmeno dibattuto pubblicamente, accecati dagli odi interni alla sinistra e dal conflitto ideologico.
Con il passare dei mesi, è apparsa tutta la debolezza di una gestione del governo ad un tempo stesso egocentrica e debole. Renzi non si fida di nessuno, tanto meno del suo partito. Ma la vischiosità politica torna a farla da padrona. Quanto alla politica economica, il tourbillon di amici ed esperti, ultimo dei quali il manager Andrea Guerra, non è stato d’aiuto.
Dietro i guai di questo autunno, dunque, non ci sono solo le tempeste geopolitiche e le meschine ritorsioni europee, ma anche lo stile di governo di Renzi che, con il passare dei mesi, è diventato determinante, tanto da trasformarsi in nuovo senso comune. Renzi non passa dalle parole ai fatti. E’ questo il refrain che si sente a Roma e a Milano come a Francoforte e a Londra.
Ogni nuovo anno si usa prendere un impegno con se stessi; ebbene il 31 dicembre, mentre stappa lo spumante, Renzi dovrebbe dire ad alta voce: adesso niente fumo, solo arrosto. Le dimissioni di Giorgio Napolitano riportano in primo piano la politica come manovra di palazzo, ma Renzi dovrebbe resistere e imporre un metodo diverso: l’accordo preventivo su una figura di garanzia, creando un clima di consenso che si allarghi anche all’economia, per invertire così la curva dello scontento.