Sulla stampa è stata ampiamente commentata la repentina decisione di Putin, durante la sua visita di stato in Turchia d’inizio dicembre, di sospendere la costruzione del gasdotto South Stream. La gigantesca opera sottomarina avrebbe dovuto portare nei Balcani, in Europa Centrale e in Italia Meridionale 63 miliardi di metri cubi di gas russo all’anno. Avrebbe consolidato lo spazio di mercato di Gazprom, il monopolista statale di Mosca, vera e propria arma nelle mani del Cremlino, per esercitare pressioni sugli Stati, soprattutto su quelli dell’Europa centro-orientale che più dipendono dalla Russia per gli approvvigionamenti di gas. In media, essi coprono il 25-30% dei consumi europei. La loro importanza sta aumentando per la produzione di energia elettrica sia per le minori emissioni di CO2 del gas rispetto al petrolio e al carbone, sia per l’enorme costo dell’eolico e del fotovoltaico, sia per il minor affidamento sull’elettronucleare. Si valuta che la domanda complessiva di gas in Europa, nel prossimo ventennio, aumenterà del 40%, dai 540 miliardi di m3 del 2013.
Il South Stream avrebbe dovuto costituire la colonna portante del cosiddetto Corridoio Meridionale del gas russo esportato in Europa, per ora limitato al Blue Stream che lo trasporta in Turchia e ad altri gasdotti di minore importanza che mettono in collegamento la penisola anatolica con l’Azerbaigian e l’Iran. Quest’ultimo, in base a quanto recenti studi geologici hanno dimostrato, è il paese che possiede le più ricche riserve di gas naturali al mondo.
Gli altri “corridoi” per rifornire l’Europa del gas russo sono quello settentrionale, centrato sul North Stream, sotto il Mar Baltico. Ad esso si aggiungono gli oleodotti Yamal e “Luce del Nord”, che transitano per la Bielorussia, per raggiungere la Germania attraverso la Polonia.
Il principale corridoio di rifornimento dell’Europa è però quello centrale, che passa attraverso l’Ucraina e da cui transita dal 50 all’80% dei 160 miliardi di m3 di gas russo esportato a Ovest, attraverso i gasdotti “della Fraternità” e quello “Occidentale” che, attraverso la Romania e la Bulgaria, raggiunge la Turchia. La capacità di trasporto degli attuali gasdotti supera nettamente il volume di gas esportato dalla Russia in Europa: 309 mld di m3 rispetto a 160 mld. Operano a poco più del 50% della loro capacità massima. Per inciso, lo stesso avviene per i rigassificatori: in Europa hanno una capacità complessiva di 197 mld di m3. Ma ne vengono utilizzati solo un terzo: 69 mld di m3.
Il problema non consiste nella capacità d’importazione, ma nel fatto che le reti nazionali sono solo parzialmente interconnesse e che si teme l’impatto di tensioni geopolitiche, specie fra la Russia e l’Ucraina, come quelle del 2006 e del 2009, che avevano suscitato preoccupazioni per il rifornimento dell’Europa.
Quali sono le ragioni della repentina decisione di Putin? Come si colloca nella competizione per il gas in corso fra gli USA, la Russia e l’UE? Che cosa comporterà per l’Europa e per l’Italia la mancata costruzione del South Stream, fino a qualche tempo fa fortemente sostenuta dall’ENI e da Gazprom?
Putin ha motivato la sua decisione con la rigidità della Commissione Europea, che pretende la separazione fra fornitore e possessore delle reti di trasporto. Tale norma, contenuta nel “3° Pacchetto dell’energia”, avrebbe comportato una diminuzione della possibilità del Cremlino di utilizzare il flusso di gas per pressioni politiche e il rischio che, in futuro, il ramo europeo del South Stream, dalla Turchia all’Austria e all’Italia, possa essere utilizzato anche per il trasporto di gas iracheno e, soprattutto, iraniano. Di fatto, Putin è preoccupato sia per la crisi economica in Russia, causata dalle sanzioni per l’aggressione in Ucraina, sia per il crollo dei prezzi del petrolio. Su di essi, il Cremlino ha molto minore presa che sul gas.
Teme, poi, il cospicuo aumento della produzione di shale gas negli USA e il fatto che, esportando il gas liquefatto (LNG), gli USA erodano lo spazio di mercato che possiede Mosca e, quindi, il suo leverage politico sui paesi importatori. Non è un caso che, per difendere quest’ultimo, Putin continui a imporre a Gazprom riduzioni del prezzo del m3 del gas. Inoltre, promuove a prezzi stracciati la costruzione di centrali elettronucleari – come ha fatto in Turchia, in Iran e in India. La dipendenza dei vari paesi da Rosatom non sarebbe politicamente molto differente da quella da Gazprom. Entrambi sono strumenti che il Cremlino utilizza per consolidare la sua influenza.
Se Mosca ha conseguito una vittoria, riuscendo a bloccare il gasdotto Nabucco che avrebbe dovuto portare il gas turkmeno e del Caspio in Europa, tramite la Turchia, non ha avuto pari successo nell’ostacolare la costruzione del Gasdotto Trans-Anatolico (TANAP), e del TAP (Trans-Adriatic Pipeline), malgrado i cospicui fondi impiegati sui media e che hanno visto la mobilitazione anche di un’importante forza politica italiana, finanziata anche dalle lobbies delle rinnovabili. Si è parzialmente rifatto, riuscendo a bloccare la preferenza della Commissione Europea per il collegamento del TANAP con l’hub austriaco, tramite Bulgaria, Serbia e Ungheria.
Inoltre, ha fatto pressioni a favore del TAP rispetto al Nabucco West, che avrebbe diminuito la dipendenza della Bulgaria e dell’Ungheria da Gazprom. Molti ritengono che solo l’LNG e i rigassificatori possano ridurre drasticamente la dipendenza europea dal gas russo e sfruttare le brillanti scoperte fatte dall’ENI di enormi giacimenti di gas sulle coste del Mozambico.
Il TAP collega la Turchia con l’Italia meridionale, lontano dall’Europa centro-orientale che più dipende dalla Russia e su cui Mosca vuole poter continuare a esercitare pressioni politiche. E’ per questo motivo che Washington ha intensificato le sue pressioni per la costruzione di un rigassificatore nell’isola croata di Krk. Sarà collegato con le reti slovacca e ungherese e forse potrà rifornire di gas anche l’Ucraina.
Putin si trova anche in difficoltà anche sulle altre direzioni di sviluppo indicate nel documento “Gas 2030”, redatto dal Cremlino nel 2009. A Oriente, la Cina approfitta della necessità russa di dimostrare all’Occidente di avere un’alternativa verso Est.
I recenti contratti di fornitura di gas e di petrolio, malgrado fossero “unti” dal trasferimento a Pechino delle tecnologie militari più avanzate, sono stati pesanti per le casse russe: le forniture di gas, che entro il decennio sarà portato in Cina dai Gasdotti “Grande Siberia” e “Altai”, hanno un prezzo inferiore del 25% rispetto a quello europeo. Per il petrolio, i cinesi sono poi riusciti a spuntare l’incredibile prezzo di 22 dollari al barile. I cinesi hanno la mano pesante. Gli affari sono affari. Mosca teme poi una dipendenza eccessiva da Pechino.
Anche la terza direzione di sviluppo della produzione energetica russa – quella dell’Artico – è in difficoltà. Le società americane, uniche a possedere le tecnologie necessarie, si stanno ritirando dal mercato russo. Le sanzioni escludono la Russia da prestiti internazionali.
Per l’Italia, tutto sommato va bene. Il TAP non ha, almeno per ora, una capacità tale da trasformare il nostro Paese – ammesso che superi le manie politico-eco-lesioniste – nell’hub gasiero dell’Europa centro-meridionale. Ma tale possibilità potrebbe derivare dalla sua collocazione geografica nel Mediterraneo, che le consente di importare il gas dall’Africa, come ha accennato il nostro Presidente del Consiglio dei Ministri. Per ora le basta la sicurezza energetica che le assicura la diversificazione degli approvvigionamenti, perseguita dalla razionale politica seguita dall’ENI.