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La Libia, un disastro

L’attacco dei talebani pakistani alla scuola di Peshawar, con la tragica uccisione di decine di ragazzi; i fatti che continuano ad uscire dalla Siria e dall’Iraq, regno sanguinoso e preoccupante del Califfo; le vicende che vedono lupi solitari ispirati dalla propaganda jihadista compiere attentati, gesti disperati, nelle più svariate aree del mondo. Circostanze che distraggono i racconti di cronaca da quello che sta succedendo in Libia.

E non siamo solo noi che raccontiamo a sonnecchiare sulla situazione, ma pure i governi sembrano lenti, disinteressati, superficiali. Lunedì il premier italiano Matteo Renzi ha incontrato Romano Prodi per parlare, “ufficialmente”, della situazione del paese nordafricano – e dell’Ucraina, che ancora, di fatto, è messa male, con i russi (o i filorussi) che continuano a guerreggiare col governo regolare.

Prodi – che si è incontrato con Renzi, al di là della versione ufficiale, anche per le beghe legate alla nomina del Presidente della Repubblica – è per certi aspetti, persona di riferimento per le “pratiche africane”. Dal 2008 presiede il Gruppo di lavoro ONU-Unione Africana sulle missioni di peacekeeping in Africa; nell’ottobre 2012 è stato nominato Inviato Speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite per il Sahel (fascia sub-sahariana che si estende tra il deserto del Sahara a nord e la savana del Sudan a sud, e tra l’oceano Atlantico a ovest e il Mar Rosso a est; in pratica di Libia ne becca ben poca, ma “è giù di lì” e tanto basta).

Prodi, in realtà, è di fatto molto considerato tra i Paesi dell’Unione Africana, che lo avrebbero visto bene (già da due o tre anni) anche come negoziatore della questione libica: incomprensibilmente l’Italia non ha fatto sponda sull’ex Presidente del Consiglio, e così il ruolo di inviato speciale dell’Onu è andato allo spagnolo Bernardino Leon. Non una scheggia. A dirla tutta, non bastasse la storia dei “101” sull’elezione al Quirinale dell’anno passato, l’Italia ha fatto secco Prodi anche dal ruolo di negoziatore tra Russia e Ucraina: proposta avanzata direttamente da Roma, e lasciata decadere nei mesi scorsi senza un perché – che di certo ci sarà, ma ancora non è noto.

La situazione in Libia negli ultimi giorni è peggiorata, per quanto possibile, visto che eravamo già sul fondo del barile. Daniele Raineri, sul Foglio, ha sintetizzato il tutto così: «Negli ultimi quattro giorni le due fazioni in guerra in Libia hanno fatto un passo senza precedenti e hanno aggredito l’unico settore che finora era scampato alla violenza, vale a dire il circuito di estrazione di gas e petrolio, di esportazione e infine di spartizione dei ricavi attraverso la banca nazionale del paese. Il governo di Tobruk – che è quello appoggiato dagli stati arabi del Golfo e dall’Egitto ed è in genere considerato “più legittimo” all’estero, e comanda le forze militari della cosiddetta operazione “Dignità” – ha proposto un circuito dei ricavi energetici alternativo, che taglierebbe fuori i rivali. L’altro governo libico, quello di Tripoli, che comanda le milizie dell’Alba della Libia, islamiste ma non tutte, ha risposto domenica con un attacco militare ai due grandi porti per l’export di petrolio a Es Sider e a Ras Lanuf».

La prima preoccupazione che a un italiano viene in mente, è la situazione del terminal di Melita che viene usato dall’Eni. Le postazioni dell’azienda italiana, in questo momento, non sono in pericolo, ma è chiaro che aprire il fronte della “guerra dell’energia” (settore a cui è ascrivibile il 90 per cento del budget statale libico) è la mossa finale. La tragica mossa finale, che porterà (o potrebbe portare, per i più ottimisti) il paese all’implosione definitiva. La Noc (National Oil Corp, compagnia petrolifera statale libica) è bloccata – “cause di forza maggiore” – visto che i terminal di Tripoli e Tobruk sono entrambi chiusi. Esperti dicono che la produzione sarebbe scesa dagli 800 mila barili al giorno di prima dell’offensiva al polo petrolifero, a circa 250 mila.

Se il governo di Tobruk, guidato da Abdallah al Thinni, prova a tagliare fuori dal mercato energetico quello di Tripoli, il Congresso nazionale libico dominato dai Fratelli Musulmani, e questo risponde con l’occupazione (“per liberare i campi” dice Islaim Shoukri, portavoce delle milizie dell’Alba) e la distruzione dei terminal, è chiaro che nulla di buono può uscire da questa situazione.

Per il momento Noc e Banca continuano a pagare il costo dell’amministrazione pubblica, tutta, perché grazie alla clausola di uno status legale che la salva dalle richieste di risarcimento di chi ha comprato petrolio che non vede arrivare, Noc può tenersi i ricavi senza cacciare una lira per i ritardi. Quanto reggerà questa neutralità non è chiaro. Anche perché dal governo di Tobruk arrivano forte pressioni per fare allineare le banche sul suo esecutivo.

È notizia di queste ore, che l’Italia manderà le forze speciali in Iraq, per combattere lo Stato Islamico. Realtà che brucia anche nelle aree orientali libiche, nella cittadina di Derna e all’interno di alcune fazioni islamiste di Tripoli. Non è detto che le truppe italiane non scendano anche in Libia: Roma, insieme a Parigi, ha dato la disponibilità, ma a condizione che ci sia la copertura delle Nazioni Unite; cioè vadano come Caschi Blu.

L’Onu, come spesso accade, viaggia a una velocità molto più lenta della realtà: i negoziati intrapresi stallano, dovevano iniziare il 9 dicembre ma sono stati rinviati. Una fonte diplomatica egiziana – l’Egitto è un paese che si sta muovendo molto per la stabilità dell’area e si sta opponendo alle realtà islamiste – ha detto all’Ansa che si sarebbe svolto un incontro martedì 16 ad Awjila, 400 km a sud di Bengasi, e non più a Ghadames (nell’ovest), in modo da consentire a tutti i negoziatori di prendervi parte. Chi siano i negoziatori, però non è chiaro, e nel comunicato redatto da UNSMIL, la missione Onu guida da Leon, si leggono generici richiami diplomatici e niente di più sostanzioso.

Mentre invece la rapidità e la risoluzione, sembra la prima necessità. Negli attacchi di lunedì, per la prima volta, Fajr Libya (Alba), la coalizione di gruppi armati guidati dagli ex ribelli di Misurata che regnano a Tripoli, ha usato mezzi aerei per colpire le postazioni petrolifere della costa del golfo di Sirte. Sarebbero stati usati arei rubati all’esercito libico, proprio nella zona di Misurata: per il momento non hanno fatto grossi danni e sono stati bloccati dalle guardie presenti nelle istallazioni, guidata dall’ex leader autonomista Ibrahim Jadran, adesso alleato del governo di al-Thani.

Ma è chiaro che si tratta di un ulteriore passo avanti, in peggio, in questa guerra appena al di là delle coste siciliane.

@danemblog


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