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Ecco il pentagono nel quale s’è asserragliato Matteo Renzi

Somiglia ad una fortezza militare medievale a forma pentagonale l’area nella quale Matteo Renzi ha consolidato le sue posizioni anfibie difesa-offesa per contenere cinque fronti di avversari e cercare di neutralizzarli. Ce la farà Renzi a battere cinque gruppi di contrapposizione contemporaneamente? O rischia la fine del Mussolini il quale gorgheggiava di “molti nemici, molto onore” che mandava in visibilio le sue camicie nere e le masse femminili compiaciute d’avere trovato il macho adeguato a soddisfarle ed apprezzarle?

Il lato della fortezza che apparentemente mostra più preoccupazione è quello del sindacato (Fiom che guida la Cgil, la quale ora si trascina una Uil poco riflessiva che, col suo nuovo segretario Carmelo Barbagallo, ciancia di Nuova Resistenza), che ha buttato nella lotta cifre imponenti, ha creato la solita bagarre in qualche piazza italiana, ma non ha scalfito neppure uno spigolo della muraglia pentagonale renziana. Anche per il crollo della tradizionale solidarietà del mondo della cooperazione rossa impelagato in vicende giudiziarie infamanti e ingiustificabili sotto ogni riguardo, l’attacco sindacale è il più appariscente: anche per il coinvolgimento di truppe di riserva cospicue. Ma non è da quel lato che Renzi – premier e segretario del Pd – potrà subire perdite, benché sappia bene come il sindacato, col concorso fisico e barricadiero dei centri sociali, è decisamente il brodo di coltura di un non improbabile, prossimo, movimento scissionistico della sinistra italiana e, comunque, decisamente antisocialdemocratico.

Un secondo fronte (ma forse si tratta del principale e del più delicato) è quello della politica estera. Sta concludendosi il semestre italiano in Europa e Renzi non si è fatto certamente dei nuovi amici. Dopo una breve liaison con la Cancelliera tedesca, è alle prese con la maggioranza della commissione che ha stretto la borsa e minaccia di non riaprirla se, prima, Roma non fa le riforme strutturali e non si limita ad annunciarle per poi dilazionarle. Su tale versante Renzi potrebbe trovare maggiore solidarietà nel suo partito di quanto ne raccolga sulla politica interna. Ma in Europa troverà porte sbarrate. Specie perché, a breve, non potrà più godere della copertura e della protezione di un Giorgio Napolitano che qualche atouts se lo poteva sempre giocare a Bruxelles.

Il terzo lato dell’ideale pentagono in cui Renzi s’è rinserrato col suo cerchio magico è quello parlamentare. Dove il governo stenta a farsi approvare i suoi provvedimenti essendo costretto a ricorrere petulantemente a sistematici voti di fiducia, pur non avendo contro di sé una minoranza politicamente alternativa: sia per l’alto premio di maggioranza di cui gode; sia per i pasticci che si consumano irresponsabilmente sul fronte moderato, decomposto e riottoso a riaggregarsi se non altro per tentare di recuperare consensi nell’amplissimo mondo dell’astensione. E, tuttavia, è proprio in sede parlamentare che Renzi è alquanto debole; e lo sarà ancora di più fra poco più d’un mese, quando dovrà affrontare le elezioni presidenziali. E siamo al quarto lato del pentagono. Qui nessuna furbizia toscana (come l’esperienza della Prima Repubblica insegna) assicura l’ovvia preferenza del governo per un capo dello Stato amico. Le voci che circolano a Palazzo Chigi, di tenere bloccati i propri grandi elettori nelle prime tre votazioni e sparare tutte le cartucce nella quarta, paiono indicare una strategia suicida. Giacché offrirebbe il fianco al prevalere di un outsider espresso da spezzoni del Pd in combutta con l’esercito trasversale di vari colori che agirà esclusivamente in funzione del proprio interesse a mantenere in piedi la traballante XVII legislatura.

Se Renzi pensa di poter utilizzare il voto presidenziale per liberarsi della dissidenza della sinistra minacciando un voto anticipato in maggio, può ritrovarsi in una condizione del tutto opposta, malgrado i benefici di una maggioranza teorica che tutto può con vari mezzi e magari in maniera contraddittoria. L’unica strategia seria cui il premier potrebbe ricorrere – il c.d. metodo De Mita – è quella di trattare politicamente con vasti settori parlamentari; ma in primo luogo in maniera seria, determinata e non giochicchiante, osservando senza remore il patto del Nazareno e le sue riforme istituzionali e costituzionali (cioè strutturali), che poi costituiscono la condizione per l’Italia di ritrovare credito operoso in Europa. Ma il metodo De Mita presuppone il possesso di una fine cultura dell’esercizio del potere, un tratto diplomatico non gracile e, soprattutto, la proposta di un candidato il cui nome sia e appaia come unitario e non divisivo. A giudicare dagli atteggiamenti giovanilisti e sbrigativi fin qui mostrati, e dalle dichiarazioni della Boschi su una prioritaria scelta «al nostro interno», Renzi non pare essere in condizione di esaltare le anzidette qualità indispensabili per eleggere un capo dello Stato al primo scrutinio e che torni gradito tanto a chi sia al potere che a chi si trovi, temporaneamente, all’opposizione.

E qui viene in ballo il lato più debole della potenza pentagonale renziana: il rapporto fra lui e le minoranze interne al Pd, mai dome e che, anzi, negli ultimissimi giorni, compresa l’assemblea nazionale in cui sono netta minoranza, dicono, non soltanto provocatoriamente, che, in caso di elezioni anticipate, loro non saranno schierati con Renzi e daranno corpo ad una seconda (o terza) formazione di sinistra. Si badi che, ora, ai Civati, ai Cuperlo, ai D’Attorre, ai Fassina e ai mugugnanti senatori che non vogliono lasciare il laticlavio, si è aggiunto Massimo D’Alema: che può confidare nell’apporto della rete delle fondazioni che da decenni sono tenute di riserva dell’inossidabile e tetragono Ugo Sposetti.

Questo lato (il quinto), apparentemente il più debole per il variegato schieramento degli avversari interni al Pd è, invece, il più fragile per Renzi. Dietro D’Alema c’è, obbiettivamente, l’intero blocco burocratista che il segretario-premier ha inteso rottamare sin dai primi ardori della Leopolda. Un blocco disarticolato quanto ad ambizioni personali e, tuttavia, consolidato: lo zoccolo duro residuale del vecchio Pci; l’assieme di legionari e pasionarie che si considerano in servizio permanente effettivo del rivoluzionarismo dei settantenni demagogici, ma con qualche tratto di nobiltà laica e clericale. Questo blocco può unirsi come distinguersi dalla sinistra dei quarantenni-cinquantenni. I quali, però, è più facile riescano a connettersi con Fiom, Cgil, sindacati di base e centri sociali, non potendosi permettere il lusso di spartirsi i voti delle veterosinistre assieme anche a Sel o similari.

A ben vedere, insomma, Renzi, apparentemente senza avversari che possano concretamente insidiarlo nel potere, possiede però un esercito di supporter adoranti ma privi di coesione culturale che deve misurarsi su troppi fronti. Qui si parrà la nobilitade della Leopolda e dei successivi acquisti e laudatori, tra i quali primeggiano sui media i vecchi arnesi del laicismo italiano tradizionale.


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