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Jobs Act, una riforma bella e impossibile

Non c’è cosa più urgente e difficile che riformare il diritto del lavoro.

Almeno nel mondo moderno, infatti, per qualsiasi governo di qualsiasi colore non esiste materia più scivolosa e complessa che quella riguardante le leggi che regolano il rapporto tra ‘promotori’ e ‘operatori’ professionali. Ma nessuna società può sopravvivere senza mutare visione delle cose. Un caso vale per tutti: dopo la caduta del fascismo, in cui vigeva l’autoritario codice Rocco, il governo De Gasperi varò una riforma del lavoro molto controversa, che istituiva tra l’altro le agenzie di collocamento, nella quale però si lasciava alla fine pressoché immutato il principio nazionalista dello Stato mediatore tra imprenditori e lavoratori.

Il sindacato, rinato dopo la dittatura, con Di Vittorio in testa, accusò la DC di statalizzare la contrattazione. Il risultato, nei decenni che seguirono, è stato perciò paradossalmente l’opposto, vale a dire la sindacalizzazione delle professioni e la logica dei diritti crescenti a scapito del lavoro e dell’innovazione con un potente aumento del debito pubblico.

Il Jobs Act vorrebbe invertire questa involuzione corrosiva. Per farlo, Renzi si è mosso in continuità con il processo di flessibilizzazione del mercato, avviato da Marco Biagi, in un contesto politico e sociale molto differente da allora. E il nodo del famigerato articolo 18 è lì a testimoniare con forza quanto complicato sia nel presente dare maggiori libertà alle imprese, siano esse pubbliche o private, senza incorrere nella sollevazione di piazza.

La polemica in queste ore è divenuta incandescente, dentro e fuori la maggioranza. Il PD si trova diviso in correnti, e in modo particolare tra coloro che sostengono la possibilità del licenziamento senza giusta causa, coloro che tiepidamente la vorrebbero applicata solo eccezionalmente e coloro che invece sono del tutto contrari. I centristi, capeggiati da Ichino e Sacconi, sono favorevoli alla sua attuazione integrale, comprendendovi pure il pubblico impiego. Tra i renziani, alla fine, restano dubbi, incertezze e stati d’animo tormentati, per altro rilevati polemicamente proprio dallo stesso Ichino.

In buona sostanza, è irrilevante se nel Jobs Act vi sia un successo schiacciante solo della linea moderata, come dice Civati, o se viceversa vi sia una vera riforma sbloccante il sistema, anche perché tale argomento riguarderà i decreti attuativi e il proseguo del dibattito. Tanto più che tra le opposizioni vi è chi come M5S vede nella riforma in cantiere un’inutile iniezione di insicurezza alle già straripanti incertezze di giovani e precari; ma anche chi come la Lega vi vede una bara aperta su Renzi e l’esecutivo. Per altro, anche Forza Italia, per bocca di Toti e Brunetta, critica fortemente l’impianto specifico, pur condividendo l’intento generale di immettere dinamismo soprattutto nel ginepraio della pubblica amministrazione.

Ora, alcune osservazioni di merito, in tutto questo bailamme, possono essere fatte in conclusione. In qualsiasi contesto regna sempre sovrana una distinzione di metodo e di principio tra due concezioni opposte e contrarie del lavoro. Da un lato, la persuasione che il lavoro sia effetto di una volontà di investire e di impiegare capitale, unica vera risorsa capace di produrre occupazione. Dall’altro, la convinzione che invece l’incremento del lavoro sia conseguenza di una regolamentazione dei diritti del datore su quelli del lavoratore, operata dallo Stato per mano sindacale.

In Italia, alla fine della fiera, riemerge sempre la dicotomia classica tra capitale e lavoro, non a caso richiamata anche nel recente libro di Thomas Piketty Il Capitale.

È evidente, d’altronde, specialmente dopo le bellissime riflessioni etiche di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, che non esiste una soluzione puramente economica alla questione sociale, e che ogni buona riforma deve umanizzazione il rapporto tra capitale e lavoro, partendo però inevitabilmente o dal mercato o dallo stato, e mai da entrambi allo stesso tempo.

L’assurdità di questo atto del Governo è che alleggerisce un po’ il carico di rigidità, non riuscendo tuttavia a sbloccare la causa vera che rende il nostro paese recessivo, vale a dire la mancanza di investimenti e di risorse impiegate nella produzione. La ragione della malattia la sappiamo tutti: l’Italia ha troppe leggi, poco chiare, troppo potere sindacale, troppo poca legalità e incertezza sui contenziosi amministrativi e, più di tutto il resto, una costante erosione fiscale dei risparmi. Inoltre, mai e poi mai il vero capitale umano è utilizzato al cento per cento.

La domanda vera allora è la seguente: come si fa a fare una riforma del lavoro con una maggioranza così eterogenea? E come si fa a pensare che un così ibrido e fumoso Jobs Act, per altro forse non applicabile neanche al settore pubblico, possa rimettere in moto un mercato del lavoro fermo da decenni e affogato da un tasso enorme di disoccupazione?

Insomma, è chiaro che non c’è cosa più urgente e difficile che riformare il diritto del lavoro. Ma di sicuro in questo modo schizofrenico e senza piglio decisionale è impossibile farlo. Perché a voler far tutto, alla fine, si finisce sempre per non fare mai niente di buono, non scegliendo, in realtà, se non i difetti inconcludenti dello statalismo e del liberismo.


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