Il Semestre di Presidenza italiana dell’Unione Europea, iniziato il 1 Luglio 2014, sta volgendo a termine; occorre quindi anzitutto porre l’attenzione circa i risultati conseguiti e le eventuali politiche avviate a livello europeo da parte del Governo italiano.
Alla vigilia dell’inizio del semestre, e a seguito delle elezioni europee, molti analisti ritenevano che attraverso il forte consenso ricevuto il Primo Ministro Matteo Renzi e il Partito Democratico potessero divenire finalmente spina nel fianco nei confronti della politica comunitaria di austerity a trazione prevalentemente tedesca e del Partito Popolare Europeo.
Alla fine del semestre, la guida italiana si è segnalata per alcune iniziative, alcune nomine importanti, come l’ex ministro degli Esteri Federica Mogherini a Vice Presidente della Commissione e Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza Comune, e l’apertura di un conflitto con i vertici europei, siano essi politici o burocrati. All’indomani dell’elezione del Presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker, il presidente Renzi ha usato uno stile molto simile a quello di Silvio Berlusconi durante la presentazione in sede comunitaria del più importante atto economico del Governo, la Legge di Stabilità, approvata definitivamente ieri in Parlamento.
Tale atteggiamento esprime il tentativo di stimolare politiche fiscali ed economiche europee più favorevoli alla sviluppo e alla crescita ma dimostra anche che l’Italia, a differenza di altri paesi (per esempio Francia e Spagna), non è riuscita a derogare ai parametri stringenti in materia di rapporto deficit/PIL.
La sfida per il capo del Governo italiano consiste nel realizzare riforme, dopo averle annunciate.
Molte delle riforme necessitano però di tempo per diventare realtà. Questo è anche il motivo per il quale Renzi ha puntato molto sull’approvazione della nuova riforma del lavoro italiana («Jobs Act») che supera le storiche resistenze della sinistra in tema di licenziamenti e assunzioni.
In questo quadro, già complesso, il parlamento italiano si troverà a dover eleggere il nuovo capo dello Stato. Molte sono le motivazioni che spingeranno il Presidente Napolitano alle dimissioni.
Tra le più influenti vanno annoverate le sue condizioni di salute (ormai alla soglia dei novant’anni), una stabilizzazione del sistema politico (diminuzione effetto Grillo) e un percorso delle riforme lento, ma comunque avviato.
Le prossime date importanti da tenere in considerazione saranno le seguenti:
13 Gennaio: il Presidente del Consiglio Matteo Renzi terrà a Strasburgo, dinanzi al Parlamento Europeo, il discorso di chiusura del Semestre di Presidenza Italiano;
16 Gennaio: il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano riceverà al Quirinale il Presidente del Parlamento Europeo e il Presidente del Consiglio d’Europa per il relativo passaggio di consegne;
Nell’arco dei pochi giorni successivi a questa data, il Presidente Napolitano, a due anni dal suo secondo mandato, dovrebbe rassegnare le dimissioni. Da quel momento il Presidente del Senato, Pietro Grasso, la seconda carica dello Stato, dovrà gestire la transizione che porterà alla convocazione, entro 15 giorni dalla data di dimissioni di Napolitano, dei grandi elettori regionali che parteciperanno alla elezione del nuovo Capo dello Stato.
La Costituzione italiana prevede, all’art. 83, che le prime tre votazioni per l’elezione del Capo dello Stato avvengano con una maggioranza dei due terzi del Parlamento in seduta comune (671 voti sul plenum di 1007 grandi elettori: deputati, senatori e delegati regionali); a partire dal quarto scrutinio è richiesta la maggioranza assoluta (504 voti).
La complessità prevista dalla nostra carta costituzionale per eleggere in Parlamento il capo dello Stato, soprattutto dopo che nelle ultime elezioni politiche (febbraio 2013) nessuna coalizione ha potuto ottenere una vittoria netta, spiegano la difficoltà della partita necessaria a individuare il successore di Giorgio Napolitano. Oggi l’iniziativa è nelle mani del primo ministro Matteo Renzi che fra deputati e senatori dispone di 407 parlamentari (non tutti però gli sono fedeli) e che può contare anche sui voti delle regioni quasi totalmente controllate dal centrosinistra. Tuttavia, l’esperienza del 2013 (quando con il voto segreto la sinistra si divise), consiglia prudenza e la ricerca di un accordo ampio e preventivo. L’ampia maggioranza necessaria per eleggere il Presidente della Repubblica richiede che il Premier cerchi i voti degli altri partiti principali e, con accurata certezza, propenderà più per quelli di Forza Italia (130) che del Movimento 5 Stelle (143).
Infatti il patto del Nazareno, ovvero l’accordo politico tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi agevolato dal ruolo di “ufficiale di collegamento” di Denis Verdini e volto a riformare il sistema costituzionale ed elettorale del Paese, potrebbe avere al suo interno anche una convergenza sul nome del prossimo inquilino del Quirinale.
Sulla carta i numeri dell’asse Renzi-Berlusconi appaiono schiaccianti, potendo contare tra i 740 e i 750 grandi elettori e dunque su di un “vantaggio” di quasi 250 voti. In realtà, come insegnano le recenti elezioni per la nomina dei giudici della Corte Costituzionale e del Consiglio Superiore della Magistratura, lo scrutinio segreto può colpire l’asse Renzi-Berlusconi. Rispetto a questo scenario bisognerà considerare il ruolo che giocherà il Movimento 5 stelle. Ovvero, se si limiterà a cavalcare candidature di bandiera come nel 2013, oppure tenterà di incidere nel risultato finale.
Eventuali elezioni anticipate, rese più probabili dall’approvazione di una nuova legge elettorale, vedrebbero la sinistra in forte vantaggio. Renzi sembra senza reali concorrenti: il centrodestra è in crisi ma il movimento dell’ex comico Beppe Grillo sembra aver raggiunto il massimo consenso e nelle ultime elezioni delle regioni Emilia Romagna e Calabria (vinte dalla sinistra) sono emersi dati interessanti. Nello specifico, il partito di Berlusconi conferma la sua crisi, il movimento di Beppe Grillo è in forte calo (solo 12-13% rispetto al 25% delle elezioni politiche del 2013) e il Partito Democratico vince perché corre da solo.
Gli elettori italiani aspettano un avversario forte di Renzi, l’unico nella politica capace, oggi, di tenere viva la loro speranza nel futuro. È possibile però che la sinistra si divida e che una parte dell’ex partito comunista costituisca un nuovo partito a sinistra del premier. Alcuni osservatori non escludono, in questo caso, un nuovo avvicinamento tra Renzi e Berlusconi.