Venti? Forse troppe. Le regioni uscite dalla Costituzione Italiana del 1948 (art. 131) erano 19. Nessun federalismo, ma un decentramento, una serie di concessioni del potere centrale agli enti periferici. Nel 1963 una delle pagine più squallide della nostra storia: una piccola provincia, Campobasso, diventò regione. Aveva 350.000 abitanti. Divenute 20, le regioni attesero a lungo. Nel clima di guerra fredda e di presenza in Italia del più forte partito comunista d’Europa, l’attuazione delle regioni era un pericolo, anche per le spinte indipendentistiche di alcune. Fu così che passarono 22 anni prima di vederle.
Oggi molti ritengono che siano troppe. E già vengono avanzate proposte per ridurne il numero. Non è solo la necessità di eliminare le spese inutili, ma anche quella di creare degli enti dotati di forza produttiva e culturale, in grado di competere con le regioni europee. Meno regioni, ma più grandi. Alcuni governatori si sono espressi per la riduzione: Nicola Zingaretti (Lazio), Stefano Caldoro (Campania) e Sergio Chiamparino (Torino), che è anche Presidente della Conferenza delle Regioni. Anche Graziano Delrio, ier l’altro, ha proposto «l’accorpamento delle regioni».
E un disegno di legge costituzionale è già stato presentato in parlamento dal deputato Roberto Morassut e dal senatore Raffaele Ranucci (entrambi Pd). Essi propongono di ridurle da 20 a 12: accorpando Valle d’Aosta e Liguria al Piemonte, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia al Triveneto, Umbria e Viterbo alla Toscana, Pesaro all’Emilia-Romagna, le Marche e Rieti all’Abruzzo, il Lazio ridotto a Roma Capitale, Latina e Frosinone alla Campania, Matera e Campobasso alla Puglia, Potenza alla Calabria.
E sta crescendo la convinzione che, oltre alla contrazione del numero, ci sia una cosa ancora più importante: ridurre le competenze delle regioni. Se, infatti, il centralismo è antidemocratico, nella nostra epoca di comunicazione elettronica una intelligente centralità aiuta l’efficienza e la rapidità delle decisioni. E sta prendendo corpo anche la consapevolezza che la distinzione tra regioni normali e regioni a statuto speciale (dotate, queste, di notevoli autonomie, privilegi e sovvenzioni) appare sempre più una discriminazione, comprensibile nell’immediato secondo dopoguerra, ma oggi priva di senso. Gli autonomismi sardo e siciliano non preoccupano più; e per garantire le autonomie etnico-linguistiche non c’è bisogno di statuti speciali.
Può essere utile confrontare queste proposte con quelle formulate da uno dei più acuti teorici del federalismo, Gianfranco Miglio, nelle sue opere degli anni Novanta. Egli fu federalista sin dal 1945, quando fondò «Il Cisalpino» (iscritto alla Dc dal 1943, la abbandonò nel 1959). Divenuto l’ideologo della Lega Nord, proponeva di definire tre grandi Comunità regionali, ciascuna formata di regioni: Nord o Padania: Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna; Centro o Etruria: Toscana, Umbria, Marche e Lazio; Sud o Mediterranea: Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria; restavano autonome le cinque regioni a statuto speciale. Il tutto semplificato dalla eliminazione delle province, residui del centralismo napoleonico-piemontese.
Miglio dunque non toccava il numero delle regioni, ma (tolte le autonome) ne faceva delle amministrazioni subalterne, per attuare nel territorio il potere gestito dalle Comunità regionali (vere e proprie piccole «repubbliche», secondo il modello dei cantoni svizzeri). La sua proposta più che federale, era confederale; e il governo diveniva un direttorio composto dai tre presidenti delle Comunità Regionali e dal presidente (a turno) di una delle cinque regioni autonome. Non senza qualche pericolo per l’unità nazionale.
È interessante che anche il parlamento francese abbia attuato una forte riduzione del numero delle regioni.
La Francia, aveva le regioni sotto la monarchia, ma Napoleone le cancellò e sostituì con i centralisti e autoritari dipartimenti. La Francia democratica ricostituì le regioni (ma con scarsissime competenze): 27, di cui 5 nelle ex-colonie d’oltremare. Nel clima attuale di spending review anche Hollande ha chiesto e ottenuto di risparmiare: è così che il 17 dicembre scorso il Parlamento francese ha concluso la riduzione, portando il numero della regioni metropolitane da 22 a 13.
Di certo una riduzione, se non proprio una soppressione, delle regioni è attesa da gran parte dei cittadini italiani. Secondo l’indagine Demos 2014, solo il 20 % le ritiene utili. Ecco perché disertano le urne: a novembre scorso, in una regione di forte civismo come l’Emilia-Romagna si è recato a votare il 39,94 %. Anche perché, oltre ai noti privilegi e favori, i reati non sono stati pochi pochi: negli ultimi anni, 15 sono finite sotto inchiesta, alcune sciolte per grane giudiziarie (Piemonte, Emilia-Romagna, Lazio, Molise, Calabria, Sicilia), 498 consiglieri coinvolti, 60 milioni di euro «spariti». Non è che gli italiani abbiano troppa fiducia nella riduzione, ma, pensano, «se sono meno, ruberanno un po’ meno».