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Ecco la vera (ultima) chance di Renzi

Matteo Renzi è “l’ultima speranza”, parola di Tony Barber che dirige la sezione Europa del Financial Times.

La prima reazione nel leggere l’articolo è di noia: non era Mario Monti l’ultima occasione per salvare l’Italia? Il tempo passa, i giornalisti no. La seconda è ironica: con 7.500 chilometri di costa, beato chi trova l’ultima spiaggia. La terza è pura irritazione: non si vuol proprio accettare che questo Paese stia cercando la propria strada senza farsi commissariare come è accaduto alla Spagna, alla Grecia, all’Irlanda, al Portogallo, a Cipro, insomma a tutta la cerchia debole dell’area euro. Ma c’è un punto sul quale Barber può avere ragione, perché non c’è dubbio che in questi anni nulla ha funzionato.

Abbiamo avuto la politica omeopatica di Silvio Berlusconi, l’austerità della Bce, la pillola amara di Monti, lo zuccherino di Enrico Letta, però, come ha riconosciuto (immaginiamo anche autocriticamente) Giorgio Napolitano nel suo mesto addio, nessuno degli interventi pubblici ha ottenuto effetti decisivi.

Per Tony Barber il motivo è che non sono state realizzate le riforme necessarie, come invece sta cercando di fare Renzi. E se invece fosse sbagliata la diagnosi che ha ispirato le ricette di politica economica?

Intanto, è ormai evidente che la crescita del debito non è la causa della crisi, ma la sua conseguenza. Ciò vale per l’intera Eurozona (il debito pubblico sul prodotto lordo è sceso dal 74% del 1992 al 66% del 2007, poi è salito al 96% l’anno scorso) e anche per l’Italia che in questi anni ha accumulato un attivo al netto degli interessi pagati. E’ la recessione gravissima e prolungata a far aumentare il rapporto tra debito e prodotto lordo.

Aggiustare i conti (pubblici e con l’estero) è necessario, ma farlo con una pesante “svalutazione fiscale” s’è rivelato un tragico errore, soprattutto perché non ha tenuto conto della struttura dell’economia italiana. Tutte le cure sono inefficaci, anzi pericolose, se non vengono calibrate sull’organismo del paziente. Allora che cosa bisognava fare?

Una stretta alla domanda interna tanto rapida e pesante era sbagliata, bisogna riconoscerlo per onestà intellettuale. La volevano i mercati, la voleva la Merkel, la voleva Draghi? Chiunque l’avesse voluta ha punito gli italiani e s’è dato la zappa sui piedi. Non ha capito gli effetti su una economia che faticosamente (e con qualche successo) si trasformava per adattarsi alla globalizzazione e all’euro.

E’ falso sostenere che l’Italia non stesse cambiando, lo stava facendo a suo modo. La Germania si era aggiustata prima della crisi in due modi: con un mercato del lavoro più flessibile e un taglio delle tasse sulle imprese. Arrivata la crisi finanziaria, ha difeso le banche, perno del Modell Deutschland, con massicci aiuti di Stato di fronte ai quali la Ue ha chiuso entrambi gli occhi. L’Italia non ha avuto la stessa determinazione politica; tuttavia, a differenza dalla Spagna che si era arricchita con la bolla immobiliare e dalla Grecia che aveva truccato i conti, stava sviluppando un modello produttivo basato sull’export di gamma più alta e sulla valorizzazione delle proprie risorse (il made in Italy, i marchi, lo stile di vita, il lusso, il cibo, ecc.).

Questa riconversione basata fondamentalmente sulla domanda estera, aveva bisogno che la domanda interna sostenesse quella parte del sistema ancora in transizione e, soprattutto, che non crollasse il credito. La ricetta contenuta nella famigerata lettera della Bce dell’agosto 2011 non teneva conto di tutto ciò e ha indotto una politica restrittiva pro ciclica, come dicono gli economisti. Il “rigore”, aumentando le imposte e tagliando le pensioni, ha rappresentato un colpo micidiale, non compensato da altre misure di sostegno.

Non si può piangere sul latte versato, ma si può cercare di rimediare. Come? Offrendo uno schema di politica economica ritagliato su quel nuovo modello ancora nella culla. Oggi si parla di portare la quota di export sul pil dal 35 al 50%, lo stesso livello della Germania. Una impresa di lungo periodo che richiede una convergenza di sforzi e di interessi. Alla quale va accompagnata una vasta ristrutturazione del terziario per aumentare l’efficienza dei servizi, vera palla al piede dell’economia italiana.

E’ chiaro, dunque, che non esiste un menu buono per tutti. L’errore commesso nell’area euro è proprio questo. Non a caso è andato meglio chi si è sottratto all’ortodossia come la Gran Bretagna o gli Stati Uniti, realizzando – lo ha ricordato Pier Carlo Padoan – prima il risanamento del sistema finanziario, poi l’aggiustamento dei conti pubblici; così, la stretta fiscale non è stata aggravata dalla stretta creditizia, e la domanda privata ha compensato la contrazione della domanda pubblica.

Per non soffocare la ripresa e per favorire la trasformazione, oggi bisogna ridurre il peso delle tasse. In modo realistico, viste le strettoie della finanza pubblica e i diktat della Ue, a piccoli passi, ma lungo un cammino certo. E se Renzi non cambierà la politica fiscale, allora finirà anche lui per essere solo la penultima chance.

Stefano Cingolani


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