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Storie e memorie di emigranti di ritorno

Negli Anni Cinquanta, l’emigrazione si era ridotta di molto, rispetto a quella, alluvionale, che mi dicevano fosse in atto prima della guerra. Gli emigranti degli Anni Cinquanta non andavano più in America (salvo pochi casi e spesso sfortunati) ma emigravano ancora in Francia, in Inghilterra e in Germania. Rappresentavano la coda di un fenomeno di emigrazione che si sarebbe ben presto esaurito. Anzi, verso la fine degli Anni Cinquanta, cominciarono a tornare a casa diversi emigrati. Erano quelli andati in pensione o che tornavano con le pive nel sacco perché non erano riusciti ad inserirsi nel paese dove erano emigrati. Oppure ancora, erano coloro che, partiti da pezzenti, volevano dimostrare, ai loro amici che non avevano voluto schiodarsi dal paesello natio, e che loro, all’estero, si erano costruiti una fortuna, anche se, spesso, non era vero.

Tutti però vivevano il dramma degli sradicati, dei pesci fuor d’acqua. Uno di loro diceva sempre: “In Italia mi chiamano l’americano e in America dicono che sono l’italiano”.

Ricordo un emigrato negli Usa che, dopo moltissimi anni all’estero, aveva deciso di venirsi a godere la sua pensione nel paese da cui era partito. Però a Carpaneto non lo conosceva più nessuno. Del resto, lui viveva da solo. E da solo camminava per le strade. Era molto più alto della media. D’inverno, portava dei giacconi che sembrano ricavati cucendo delle trapunte vistose. D’estate invece indossava delle sgargianti camicie country a quadri che, molti decenni dopo, diverranno famose con lo stile Marlboro. Non aveva l’aria ostile ma non parlava con nessuno. Bastava evidentemente a se stesso. Anche al bar si scolava due birre di seguito guardando nel vuoto. Non si fece sentire nemmeno quando scomparve. Morto? Trasferito altrove? Nessuno ne sapeva niente. Anzi, nessuno sapeva nemmeno dire dove l’americano avesse vissuto in tutti quegli anni. I più informati dicevano che aveva vissuto “in periferia”. E ciò, evidentemente, era un’informazione che bastava ai più. Il paese che solitamente si impicciava di tutto ciò che capitava a chi viveva stabilmente nel paese, in questo caso, aveva stranamente adottato un atteggiamento metropolitano, quasi si fosse detto: “L’americano non si interessa di noi? E non ci disinteressiamo di lui. Vuol essere lasciato in pace? E noi ce lo lasciamo fino in fondo”.

L’emigrato in Francia invece era partito da manovale, nemmeno da muratore. Non ero un esperto di categorie edilizie: ma mi sembrava di aver capito che, nei piccoli cantieri, c’erano i garzoni (che erano i manovali alle prime armi), i manovali (che erano dei garzoni per i quali il tempo era passato inutilmente) e poi i muratori. Fra i manovali e i muratori c’era una differenza abissale ed insormontabile, come quella fra il caporale e il generale. Il manovale partito per diventare a Parigi un ufficiale della cazzuola, ritornava verso la fine di ogni luglio da Parigi a bordo di una Citroen vistosa che alcuni invidiosi del posto sussurravano avesse preso in noleggio per le tre settimane “di rientro in patria”. Si diceva così.

Per un paio di giorni, il parigino, portava la cravatta ma poi passava direttamente alla canottiera. Fingeva di non essere più adatto a frequentare l’osteria di un tempo ma, dopo pochi giorni, ci tornava con la sua fisarmonica di un tempo, a suonare mazurche e tanghi mentre l’amico gli dava il tempo suonando la batteria che era ottenuta battendo le posate sui bicchieri variamente pieni. Ma ciò che lasciava di stucco gli amici e il resto del paese era il fatto che il muratore parigino, ogni anno, ritornava con una fidanzata nuova, moderna, disinvolta, sfrontata (rispetto alle donne locali che, a trent’anni, erano già vestite come se fossero sul Gennargentu).

Questa rimpatriata durò qualche anno. Poi, il muratore carpanetese all’ombra della Tour Eiffel, prima saltò qualche anno ed infine non si fece più vedere. Aveva esaurito i soldi? Si era sposato con una parigina che di Carpaneto e delle sue batterie ottenute suonando con le posate sui bicchieri, se ne faceva un baffo? Aveva fatto troppa fortuna e quindi non gli interessava più esibirla nel paese di origine, diventato troppo asfittico anche ai suoi occhi? Di fatto, il muratore scomparve dall’orizzonte, come se non fosse mai esistito prima, nel silenzio dell’intero paese. Che non ne parlò più.

Fece invece sicuramente fortuna a Londra, nel settore della ristorazione, un mio amico delle elementari. Aveva, fin dalla più giovane età, le stimmate del ristoratore di razza. Lui infatti, con i piedi piatti, c’era nato. Non gli erano venuti a furia di stare in piedi, come capita ai camerieri di lungo corso.

C’era anche l’emigrante che aveva fatto successo negli Usa. Quando ritornò era quasi sull’ottantina. Ma, dicevano i bulli, che lo ossequiavano per farsi pagare gli aperitivi “non aveva ancora tirato i remi in barca”. O, come diceva lui, “sono più che mai in gioco, ragazzi”.

L’emigrante che aveva fatto fortuna, vestiva con una ricercatezza inconsueta dalle nostre parti. Portava dei farfallini vistosi per dimensione e spesso anche colorati all’hawaiana. La sua mise, d’estate, era una giacca di lino, studiatamente stropicciata. La camicia sbottonata sul collo era arricchita da un foulard annodato con nonchalance. La mise si completava con dei pantaloni candidi che noi avevamo visto addosso solo ai marinai che, comprensibilmente, in una zona di reclutamento alpino come la nostra, erano rari come le mosche bianche.

Un marinaio, della mia generazione, a dire il vero, c’era anche stato. Per puro spirito di contraddizione si era voluto arruolare in Marina dove, tra l’altro, si faceva una naja che era di dodici mesi più lunga che non nell’esercito. Aveva un difetto, ‘sto marinaio da terra ferma. Non sapeva nuotare e, per il colmo della sfortuna, il poveretto, finì per annegare, d’estate, nemmeno in mare, ma a casa sua, d’estate, mentre era in licenza, in un’ansa da niente di rio Riglio che, di per sé, è poco più che un canale e che, in quella stagione, di solito, è addirittura a secco.

Ma torniamo all’emigrato che aveva fatto fortuna. Un giorno mentre, appoggiato al bar, stava chiacchierando amabilmente del nulla con la barista, un giovinastro, non so se per fargli un dispetto o un complimento, gli chiese: “Ma lei, quante donne ha conosciuto?”. L’emigrato, preso alla sprovvista e anche un po’ imbarazzato di fronte alla barista che lo considerava un vero signore, ebbe un impercettibile sussulto, ma fece finta di non aver capito e proseguì imperterrito nella sua conversazione con la sua interlocutrice che, tra l’altro, lo trattava sempre in palmo di mano. “Per me, a l’é c’me s’al fiss an marchès”, per me è come se fosse un marchese, diceva di lui la barista, forse tenendo in conto anche delle sue sontuose consumazioni, fatte ed offerte, rispetto a una clientela stracciona che quasi sempre entrava lemme lemme nel bar, solo per leggere la Libertà e poi svignarsela senza aver consumato nulla: ciau, ciau!

Poco dopo, però, l’emigrato che aveva avuto fortuna, si allontanò dal bancone del bar per avvicinarsi al giovinastro e, per nulla contrariato, anzi con aria compiaciuta e schiacciando impercettibilmente l’occhio sinistro per sottolineare la sua complicità, rispose: “Mille seicento sessantatre”.

E se ne andò subito, svelto e indifferente, come se avesse impercettibilmente lasciato cadere una monetina nel cappello di un medicante piagnucoloso, steso sul marciapiede.

Di questo emigrato di successo (e di ritorno) ricordo l’arrivo al bar, d’estate, verso le 10 del mattino. Parcheggiava sotto la tòpia che fronteggiava il bar dove arrivava guidando con prudenza un Alfa Romeo sportiva di color rosso. Scendere da una vettura bassa non deve essere stato facile per un ottantenne, anche se vispo. Ecco perchè l’anziano guidatore, prima apriva la porta, poi metteva un piede per terra; quindi, mentre si girava lentamente con l’altra gamba, faceva finta di dover sbirciare un giornale. E alla fine, aiutandosi con entrambe le mani aggrappate alla carrozzeria, si dava il colpo decisivo. La barista, che fino ad allora sembrava essere in tutt’altre faccende affaccendata, cominciava a salutarlo sontuosamente non appena l’americano era riuscito a rizzarsi sulle sue gambe.

Dall’America Latina, dal Brasile, precisamente, era tornato un altro emigrato, vedovo. Era un tipo esuberante e guascone. Quando, di notte, tornava a casa in campagna, a bordo della sua Topolino decapottabile, appena era fuori dal paese, quando era più su di giri del solito, sparava in aria, muggendo grida di gioia. Dalla piccola utilitaria uscivano, assieme agli scoppi, anche dei vistosi lampi di fuoco, nelle notti popolate di lucciole. C’era chi diceva, ma sono sicuro che fosse un’esagerazione, che l’emigrante, nella foresta amazzonica, sparava agli indios per farli fuggire dalle sue fazendas.

Ne aveva paura anche il maresciallo dei carabinieri che, pur sapendo che l’emigrante di ritorno non aveva il porto d’armi per quello sputafuoco da far paura, gli aveva fatto sapere che, se non si fosse limitato a fare il gradasso nella sua corte, sarebbe intervenuto lui, costi quel che costi.
C’era anche colui che noi, studenti pendolari sulle corriere della SEA, oberati da un abbonamento salassante, chiamavamo “el vendicatòr”. Era un pensionato che aveva lavorato in Germania. Era immenso. Con un pancione così. Ma anche con dei bicipiti impressionanti. E un collo da toro. Un giorno “el vendicatòr” sedeva sull’ultima fila di sedili del rimorchio della corriera che ballava vistosamente. Gli si avvicina il bigliettaio: “Biglietto, prego” gli dice. Il panzone non fa nemmeno una piega. “Biglietto” ripete più fermamente il bigliettaio, rinunciando anche al “prego”.

El vendicatòr guarda verso il vuoto con l’occhio vitreo. “Il biglietto, ho detto” ingiunge il controllore. A quel punto, l’emigrato di ritorno dalla Germania, che sino ad allora si era limitato a ballare ritmicamente assieme al rimorchio della corriera, si punta con i pugni sui sedili e urla: “Sa t’vé mia via sùbit, ad do ‘n sgiafòn cha ta stàc la testa dal col, vè!”, se non vai via subito ti do una sberla che ti stacco la testa dal collo. Il bigliettaio allora fece finta di non aver sentito. Girò sui tacchi e, alla prima fermata, ritornò sulla motrice della corriera. Noi avremmo voluto applaudire subito el vendicatòr. Ma lo facemmo nel “for nostro”. Non si usava essere irriverenti. Anche se volevamo esserlo.


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