Ho provato un certo disagio nel vedere una cinquantina di capi di Stato e di governo e un’immensa folla che sfilavano l’11 gennaio scorso a Parigi per affermare il diritto alla libertà di espressione. Il disagio non è stato motivato solo dalla percezione dell’ipocrisia e della retorica inevitabilmente presenti in tali manifestazioni, né dalla presenza di rappresentanti di Stati che prevedono norme penali contro la blasfemia. E’ stato provocato soprattutto dal fatto che la reazione dell’Occidente abbia divertito gli islamici radicali e abbia consolidato nel loro immaginario collettivo il successo degli attentati. Inoltre, ha fatto sentire più potenti e importanti i potenziali terroristi, rafforzando in quelli più fanatici la volontà d’emulazione degli “eroi” che hanno massacrato i giornalisti di Charlie Hebdo.
Non ho quindi condiviso l’entusiasmo di molti commentatori, che rappresentavano l’evento come una svolta storica nei rapporti fra l’Europa e l’Islam. Penso che la marcia – pur consolatoria per molti e occasione per politici e giornalisti di retorica a buon mercato, aumentando il loro consenso o la loro audience e mascherando inadempienze, paure e ignoranza di quanto sta avvenendo nel mondo – non segni nessuna svolta. L’attentato non è servito né a rafforzare l’Occidente, né – tanto meno – a de-radicalizzare i potenziali terroristi o a convincere i loro ispiratori e mandanti che il “gioco non vale la candela”. Trovo ridicolo che l’Occidente voglia insegnare all’Islam come deve riformarsi. E’ già stato buffo che lo abbia voluto fare il generale al-Sisi, presidente dell’Egitto. Anche se sono portato a condividere l’affermazione di Clemenceau che “con le baionette si possa far tutto, eccetto sedervisi sopra”, non immaginavo che un generale volesse divenire il Martin Lutero dell’Islam. Trovo anche ridicolo che dopo ogni attentato ci si sforzi di affermare che i terroristi sono portatori di una concezione errata dell’Islam e che una riforma religiosa sia premessa per una riforma politica. Le due vanno di pari passo. Discutere sulle rispettive priorità equivale a discettare se venga prima l’uovo o prima la gallina.
A parer mio, l’impatto degli attentati sui radicali islamici è stato negativo. Li ha rafforzati. Sono stati felici nel vedere che abbiano avuto successo e quanta gente abbiano mobilitato. Il risultato è stato amplificato dal “can-can” mediatico, peraltro inevitabile nelle democrazie occidentali. Ogni atto terroristico tende ad almeno due obiettivi. Intanto, vuole creare terrore nella massa della popolazione. Poi, vuole accrescere il senso di appartenenza alla propria comunità, rafforzarne orgoglio e senso d’importanza e di potenza.
I commenti, soprattutto quelli fatti “a caldo” da commentatori ed esperti – o cosiddetti tali – hanno spesso superato la soglia del ridicolo. Il culmine è stato raggiunto in un talk show in cui è stato affermato che le origini del terrorismo vanno cercate nel liberismo. Sembrava assistere a un concorso che premiava chi la “sparava” più grossa. La strage, nella sua drammaticità, è stato trasformata in spettacolo, per suscitare emozioni e aumentare l’audience, da cui, per inciso, dipende il valore commerciale dei singoli media.
In tal modo, si è fatto il gioco dei terroristi. Allora che fare? Come ridurre il terrorismo a dimensioni accettabili, trasformandolo da “guerra” a crimine”? A parer mio gli obiettivi prioritari non sono costituiti dai “manovali del terrore”, cioè dagli esecutori materiali degli attentati e dai loro complici. Spesso essi cercano deliberatamente la morte. Sono fanatici persuasi di divenire importanti superando le loro frustrazioni, trasformandosi nelle loro comunità in “eroi per la “causa”. Vanno colpiti prioritariamente coloro che li mobilitano e li manipolano, sia direttamente sia tramite web. Una risposta è tanto più efficace quanto più è rapida e brutale.
Avrei preferito che, invece di marciare e di lanciare tanti fumosi slogan invocanti la pace e la necessaria distinzione fra l’Islam e il terrorismo, l’Occidente avesse mandato tutte le portaerei disponibili a bombardare l’ISIS e l’AQAP. Almeno si sarebbe pervenuti al risultato di non farci ridere alle spalle e disprezzare dalla massa degli islamici. L’Europa avrebbe raggiunto un altro risultato positivo. Con gli attentati di Parigi, i partiti populisti di tutto il continente hanno visto aumentare i loro consensi, a seguito non solo degli attentati, ma anche – e forse soprattutto – della debole, spesso timida, reazione dei governi.
Una risposta dura sarebbe stata preferibile. “Porgere l’altra guancia” o mettersi a piagnucolare non possono costituire la base di una politica. La tolleranza e la ricerca della collaborazione – con il dialogo, con i distinguo e con la pretesa di poter affidare ai musulmani “buoni” il compito di neutralizzare quelli “cattivi” – sono irrealistiche nella situazione in cui ci troviamo. Non sono efficaci per fare di fronte a un’aggressione che ha sempre più caratteristiche militari, che invece di un crimine sta diventando una guerra.
Il grado di consenso di cui godono i gruppi terroristici nelle loro comunità dipende dai loro successi. Rispetto alla situazione esistente all’inizio del secolo con al-Qaeda, oggi con il Califfato abbiamo un vantaggio: l’avversario ha un territorio. Sappiamo quindi dove poterlo colpire. L’ISIS si sta logorando a Kobane. Ha certamente commesso un errore strategico rinunciando al suo principale vantaggio: la mobilità consentita anche nell’incorporazione nei suoi ranghi di molti ex-ufficiali delle forze speciali di Saddam Hussein. Non può ritirarsi, poiché la città è divenuta un simbolo. Una ritirata sarebbe considerata una sconfitta.
Le sue vie di comunicazione sono vulnerabili agli attacchi aerei. Molti dei suoi comandanti migliori sono stati uccisi. Nell’attentato di Parigi sono emersi collegamenti fra l’ISIS e i qaedisti dello Yemen e del Fronte al-Nusra. Colpendo il primo si indebolirebbero anche i secondi.
Una delle obiezioni ricorrenti all’aumento delle misure antiterrorismo è che esse provocano sempre una restrizione della libertà civili e del diritto alla privacy. Vi è un equivoco al riguardo. Le restrizioni a tali principi fondamentali per le democrazie occidentali derivano dalle misure difensive, non da quelle offensive, che non sono permanenti, ma temporanee e che vengono effettuate soprattutto al di fuori dei nostri territori. Solo le seconde, poi, consentono di superare l’asimmetria strategica e tattica, strutturalmente esistente fra il terrorismo e le forze di sicurezza. Il primo decide chi, quando colpire e come farlo. Le seconde dovrebbero difendere permanentemente tutti i possibili obiettivi.
Non lo possono fare, poiché i mezzi sono limitati. Devono scegliere sulla base di una scala di vulnerabilità. Se proteggono un obiettivo, aumentano la probabilità che ne vengano colpiti altri. Ne accrescono infatti la vulnerabilità relativa. Fra la difesa statica e quella dinamica, quest’ultima deve avere la priorità. Le organizzazioni terroristiche vanno messe sulla difensiva. Vanno obbligate a concentrare i loro sforzi sulla sopravvivenza. Il loro prestigio va eroso, per diminuirne reclutamenti e finanziamenti. La timidezza dei governi occidentali ha finora impedito di attaccare con decisione lo Stato Islamico. Anche i musulmani disponibili a isolare e neutralizzare i potenziali terroristi, denunciandoli alle forze di sicurezza o eliminandoli direttamente, sono dissuasi a svolgere un ruolo attivo. Temono di essere lasciati da soli.
In sostanza, senza una reazione dinamica delle nostre forze di sicurezza, non riusciremo a contenere il terrorismo. Manifestazioni come quella di Parigi e i vari “servizi speciali” sui media ne amplificano gli effetti. Lo stesso effetto hanno i tentativi di varie forze politiche di utilizzare il terrorismo di matrice islamica per i loro fini politici. Non riusciremo a contenere il terrorismo, prima che i populismi e la xenofobia cambino la natura del “diritto mite” delle nostre società. Vedremo comunque altre “marce di Parigi”. Incrociando le dita, c’è da sperare che non siano troppo frequenti.