Ciò che è bene per un Btp è bene anche per l’Italia? La domanda non è campata in aria se si pensa all’enfasi, forse esagerata e magari foriera alla fine di delusione, con cui si sta attendendo il fatidico varo del Quantitative Easing della Banca centrale europea. Ci sono tre interrogativi che è lecito porsi, in una situazione in cui l’Europa vive in mix fatto di deflazione, stagnazione economica, disoccupazione e bassi tassi d’interesse.
DOVE FINIRANNO I SOLDI DI FRANCOFORTE?
La prima questione da porsi è semplice. Atteso che le banche europee ospitano nei loro bilanci gran parte dei 5.000 miliardi di maggior debito pubblico emesso dagli Stati da quando è scoppiata la crisi del 2008, l’operazione che ha in mente Mario Draghi, che non può acquistare titoli sul mercato primario, può effettivamente essere di beneficio anche alle imprese? Che sia una ripulitura delle voci creditizie non c’è dubbio. I minimi storici proprio sui nostri Buoni poliennali del Tesoro e l’euforia che serpeggia in Borsa su questi bond dimostrano che il mercato ha capito di che operazione si tratta e quanto impatterà in una realtà come la nostra, dove le sofferenze bancarie hanno raggiunto la cifra monstre di 181 miliardi di euro. La risposta più ovvia è però che non ci sono certezze matematiche sulla capacità dei banchieri di trasferire in seguito a imprese e cittadini quello che ricevono da Francoforte. Se hanno da mettere a posto i ratios patrimoniali, come impongono le varie regole di Basilea e gli stress test, quello faranno e forse anche a ragione.
IL NUMERO DELLE CARTUCCE
La seconda considerazione è sulla quantità del QE all’europea: basteranno 500 miliardi di euro, o ne serviranno il doppio o addirittura 2.000, come sostiene l’ex banchiere centrale cipriota Athanasios Orphanides, fino al 2012 membro del consiglio direttivo della Bce? Non è dato sapere. Si tenga conto del fatto che con circa cento milioni di cittadini in meno gli Stati Uniti hanno fatto pompare dollari alla Federal Reserve, dal fallimento di Lehman Brothers, per almeno 2.000 miliardi di dollari nella prima fase. Un quarto di quest’importo sembra davvero pochino, per le dimensioni e per le difficoltà di un’economia così poco interconnessa come quella dell’Unione, che costringerà tra l’altro ciascun istituto centrale nazionale a coprire con l’Eurotower parte delle esposizioni derivanti dal QE sui titoli sovrani (è il prezzo da pagare per avere il sì di Berlino all’operazione).
L’ASSENZA DI UN TESORO EUROPEO
La terza domanda, che diventa a questo punto una necessità imprescindibile, è legata alla sovranità della Bce. Siamo sicuri che possa funzionare un sistema di riacquisto di titoli sovrani quando non c’è un tesoro europeo che li emette? Gli Stati Uniti che conosciamo oggi, sono nati nel 1789, quando Alexander Hamilton, il primo segretario al Tesoro della storia americana, riuscì a far inserire nella Costituzione un principio fondamentale: la condivisione dell’indebitamento dei tredici stati che avevano vinto la guerra d’indipendenza. E’ lì che è nata l’America: una moneta, un esercito, un debito.
CHE SUCCEDE ALTROVE
Una banca centrale europea sarà davvero tale quando, oltre ad essere prestatrice di ultima istanza, come la Fed, la Banca d’Inghilterra o la Bank of Japan, avrà anche un suo Hamilton da cui far discendere le scelte di politica economica e le emissioni di titoli di stato comunitari, i famosi Eurobond, di cui non si parla più e che hanno trovato spazio formale solo in un documento della Commissione Europea nel 2012. Per fare un paragone chiaro a noi italiani, servirebbe ricelebrare quel matrimonio tra Tesoro e Banca d’Italia che è stato sciolto per legge nel 1981 e di cui si parla ancora in convegni celebrativi del bel tempo che fu.
CHI PAGHERA’ IL CONTO?
Se dunque è lecito aspettarsi delle fiammate sui mercati nel D-Day della Bce previsto per il 22 gennaio, un possibile show down sull’euro rischia di essere solo rimandato di qualche mese, per i motivi congeniti appena illustrati e che si possono condensare nella fatidica quarta domanda: bene il QE, bene la liquidità aggiuntiva, ma alla fine il conto chi lo paga? Ecco perché si devono seguire con attenzione le mosse di Alexis Tsipras almeno quanto quelle di Draghi. Ha sicuramente centrato il tema della sua campagna elettorale in Grecia: la rinegoziazione del debito. Ma è sbagliata la ricetta che offre il leader carismatico di Syriza, in testa ai sondaggi per il voto del prossimo 25 gennaio, primo di una lunga serie di consultazioni attese e importanti per il futuro dell’Europa (quest’anno si voterà in Estonia, Finlandia, Regno Unito, Polonia, Spagna, Turchia per le politiche e in Francia e Italia per le amministrative e gli esiti non sono affatto scontati).
La strada maestra per mettere benzina nelle casse esangui degli Stati non è infatti quella di rivedere le condizioni di indebitamento di un Paese in cui il rapporto debito-Pil ha raggiunto quota 175%, con l’inevitabile conseguenza di coinvolgere indirettamente anche chi questa richiesta non avanza, come l’Italia, che è al 134% di quel livello ma ha un debito di oltre 2.100 miliardi (contro gli oltre 300 di esposizione ellenica). Il vero obiettivo è piuttosto arrivare proprio a una condivisione dei debiti eccedenti una certa soglia il Prodotto interno lordo, con contemporanea emissione di Eurobond, che la stessa Bruxelles sembra aver archiviato per sempre nella speranza che abbia esito il piano Juncker da 300 miliardi di euro. Su questo aspetto, delicatissimo e inviso ovviamente alla Germania, si era aperta una timida discussione giusto un anno fa quando alcuni saggi tedeschi proposero alla cancelliera Angela Merkel di analizzare la possibilità di costituire un apposito fondo alimentato dai diversi Stati europei. Fatte le consultazioni comunitarie, tutto è finito in soffitta. E i dati nazionali sono tutti peggiorati, salvo eccezioni.
UNA MONETA A META’
Tra il 2007 e il 2013, durante il terremoto finanziario, in pochissimi sono diventati più forti. La Germania ha visto crescere occupazione e Pil del 5%, la Gran Bretagna ha fatto di meglio, il resto dell’economia dell’Eurozona è rimasta sotto lo zero di oltre 6 punti percentuali. Una debacle senza precedenti che si protrae oggi in quasi tutto il Vecchio Continente. L’euro è ancora una moneta a metà, la sua banca centrale necessita di un forte mandato politico, la politica economica non ha mai un’unica voce, si fanno sempre più strada i partiti euroscettici, il nazionalismo è qualcosa di più di una bandiera. E i prudenti svizzeri hanno cominciato a mettere le mani avanti sulla solidità dell’eurozona. In questo contesto può bastare il bazooka di Draghi?
CONCLUSIONE
Aspettando Francoforte, deve comunque prevalere l’ottimismo, facendo ‘’tesoro’’ (il termine è quello più appropriato) proprio di quanto avvenuto negli Usa nel diciottesimo secolo. Alexander Hamilton è ricordato ancora oggi come un padre della patria a stelle e strisce e non a caso è l’unico non Presidente ad essere effigiato su una banconota, quella da dieci dollari. Per noi europei la speranza è di avere un domani un biglietto da 100 euro con l’immagine di Draghi e uno da 50 con il volto del futuro ministro del Tesoro europeo. Allora e solo allora saremo un’Unione completa.