L’asse geopolitico dell’Eni appare oggi indirizzato verso sud, verso l’Africa. Nuovi giacimenti come nel caso del Mozambico ma anche la necessità di tutelare aree ad alta instabilità quali l’Iraq, la Libia, la Nigeria e il Congo. Il futuro del Cane a sei zampe sarà nel suo core-business ed è su questo che il nuovo ad, Claudio Descalzi, sta lavorando.
Il rinnovato orientamento dell’azienda, già emerso in un’approfondita audizione ai senatori della Commissione industria al Senato, guidati da Massimo Mucchetti, è stato ribadito durante l’incontro “L’energia del futuro. Nuove fonti e nuovi mercati per Stati Uniti ed Europa”, organizzato il 20 gennaio da Aspen Institute e da Eni.
LO SGUARDO ALL’AFRICA
L’Europa, a causa dei limiti alle emissioni che si è data, in futuro avrà sempre più bisogno di gas e per averlo – ha spiegato Descalzi – dovrà puntare sull’ Africa, con “un corridoio Nord-Sud che è un’alternativa a quello Est-Ovest e con il mare del Nord“, che avrebbe “senso da un punto di vista industriale: pensiamo a una connessione che abbiamo avuto modo di proporre, un’alternativa virtuosa con un’energia che non è cara“. È questo, per l’ad, uno dei punti su cui il Vecchio continente dovrebbe organizzare la propria strategia energetica, che si discosta da quella del suo predecessore Paolo Scaroni, come dimostra del resto l’abbandono senza troppi patemi del progetto South Stream. Per raggiungere una vera e propria autonomia è necessario rivolgersi a Sud, “perché si tratta di un continente che ha molta energia e poca domanda“. Questa strategia convince un conoscitore del mondo Eni, come Giulio Sapelli, dal 1996 al 2002 nel cda del Cane a sei zampe, dal 1994 ricercatore emerito presso la Fondazione Eni Enrico Mattei. Lo storico ed economista nel suo ultimo pamphlet “Dove va il mondo” (edizione Guerini), contesta la visione dominante di un futuro asiatico, spiegando che il vero motore della crescita sarà piuttosto l’Africa (e invitando l’ad a puntare sulla produzione, per competere tra qualche anno a livello globale con le Big Oil).
COLMARE IL GAP CON GLI USA
È prioritario per l’Europa, secondo Descalzi, recuperare il divario che si è creato con gli Stati Uniti, spinti dallo shale e non solo. Un obiettivo raggiungibile mettendo “a fattor comune tutte le proprie installazioni” e connettendo “tutta la rete di trasporto e gli stoccaggi, basandosi su un quadro regolatorio comune“.
“Europa ed Usa – rimarca – avevano bisogno di energia ed hanno adottato politiche differenti. In 10 anni gli Usa sono riusciti a non dover più importare né gas, né petrolio. Una conseguenza è l’onda terribile che stiamo vivendo in questi giorni sui prezzi del petrolio ma loro sono autosufficienti, l’Europa no“. Per Descalzi, per essere competitivi, c’è bisogno di considerare finalmente il Vecchio continente “uno Stato e non un insieme di Stati“.
LA STRATEGIA DA ADOTTARE
Per la produzione, poi, bisognerebbe puntare prima di tutto sul mercato domestico, prendendo esempio da oltreoceano: “Possiamo – ha evidenziato – raddoppiare la produzione nazionale con un investimento tra i 15 e i 18 miliardi e penso che con le nuove regole potremmo farlo. In Europa e in Italia abbiamo ancora molto gas da sfruttare“.
In un’intervista a Bloomberg TV in diretta dal World Economic Forum di Davos, l’ad ha parlato ieri anche di investimenti e di prospettive dell’azienda, legate in parte alle recenti fluttuazioni del prezzo del petrolio.
“Abbiamo diversi tipi di investimenti, abbiamo investimenti già impegnati e investimenti che dobbiamo iniziare. Penso che la media del settore (di taglio degli investimenti) sia del 10-13%, noi siamo nella media. Per fortuna, abbiamo iniziato la nostra riduzione dei costi come dal nostro programma di maggio, giugno, quindi abbiamo anticipato di circa 3/4 mesi questa crisi. La nostra strategia – sottolinea – è stata quella di puntare molto sulle esplorazioni ed è stato un successo che ha portato alla scoperta di 10 milioni di barili negli ultimi sei anni”.
LE VARIABILI
A influenzare il comparto ci sono poi per Descalzi “componenti strutturali come l’aumento della produzione di shale oil negli Stati Uniti, che è cresciuta molto rapidamente ma ora rallenterà, la stagnazione in Europa e il rallentamento della crescita economica della Cina, ma non sono così critici. Il trend al ribasso è cominciato a luglio ma è peggiorato solo quando l’Opec, a novembre, ha scelto di non effettuare un taglio della produzione. Siamo ottimisti nel medio lungo-termine, non pensiamo ci siano componenti strutturali forti. La crescita dello shale è stata molto rapida, ma veloce è stata anche la discesa”.
Mentre se si guarda nello specifico al prezzo del petrolio, l’ad non sembra essere preoccupato. “Abbiamo già assistito a questo genere di fluttuazioni in passato e, per quella che è la nostra esperienza, la ripresa arriva al massimo in un anno e mezzo“, con il prezzo del greggio che in un paio d’anni tornerà ad assestarsi tra i 70 e i 90 dollari al barile. “Per l’Europa – conlude – è molto positivo avere prezzi del petrolio molto bassi ma abbiamo bisogno di stabilità per gli investimenti, la nostra industria lavora sul lungo periodo”.