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Le scommesse inutili di Renzi e Berlusconi sul Quirinale

Le modalità e dimensioni delle sconfitte inferte ai dissidenti dei rispettivi partiti nelle votazioni al Senato sulla riforma elettorale permettono una buona dose di ottimismo a Matteo Renzi e a Silvio Berlusconi nel conto alla rovescia per il 29 gennaio, quando si comincerà ad eleggere il nuovo presidente della Repubblica.

Per quanti rischi comportino le votazioni a scrutinio rigorosamente segreto, e relativi franchi tiratori, è ormai francamente difficile che la corsa al Quirinale si concluda diversamente da come si accorderanno anche formalmente, all’ultimo momento, i due contraenti del cosiddetto patto del Nazareno. Che è quello stretto appunto fra Renzi e Berlusconi un anno fa sulla strada delle riforme, ma destinato a coinvolgere ben altro.

Il successo dei due, a unica consolazione forse delle frustrate e ribollenti minoranze dei rispettivi partiti, è comunque destinato a rivelarsi relativo, cioè meno consistente del voluto, dopo che saranno riusciti, salvo sorprese, a mandare un loro candidato sul Colle, di qualunque colore, provenienza e genere potrà essere.

Se c’è una cosa che accomuna tutti i presidenti della Repubblica finora succedutisi è quella delle delusioni che hanno procurato a quanti ne perorarono o permisero l’elezione.

LE PULSIONI DI DE NICOLA

Enrico De Nicola era appena diventato capo provvisorio dello Stato, dopo il referendum istituzionale del 1946, e già il povero Giulio Andreotti, per conto del presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, doveva fronteggiarne le ricorrenti pulsioni a dimettersi per le ragioni più diverse: politiche, istituzionali o semplicemente di carattere.

LE SORPRESE DI EINAUDI

Il liberale Luigi Einaudi, succedutogli nel 1948 con l’elezione da parte delle Camere della prima legislatura repubblicana, e con il decisivo appoggio della Democrazia Cristiana, le diede la sorpresa della formazione di un governo, quello presieduto dal pur democristiano Giuseppe Pella, tanto poco richiesto e gradito da essere considerato e qualificato semplicemente “amico”. Esso ballò una sola estate, ma sufficiente a procurare nei palazzi della politica il classico cardiopalmo, anche con l’addensamento delle truppe ai confini orientali a favore del ritorno di Trieste all’Italia.

LE SCELTE DI GRONCHI

Il democristiano Giovanni Gronchi arrivò nel 1955 al Quirinale spintovi soprattutto dalla parte del suo partito smaniosa di aprire ai socialisti, ma nel 1960 egli nominò un governo, quello guidato da Fernando Tambroni, che si guadagnò l’appoggio della destra. Esso cadde in pochi mesi fra disordini e sangue di piazza.

I RUMORI DI SEGNI

Per il centro-sinistra vero e proprio, “organico”, bisognò attendere l’arrivo al Quirinale del moderato Antonio Segni, voluto con finalità compensative, o d’equilibrio, dall’allora segretario della Dc Aldo Moro. Che poi avrebbe realizzato il primo governo a partecipazione diretta dei socialisti. Ma Segni nel secondo anno del suo mandato, nell’estate del 1964, gestì una crisi ministeriale che per poco non si chiuse con la liquidazione della formula realizzata da Moro. Si sentirono quelli che il leader socialista Pietro Nenni definì “rumori di sciabole”, altri un vero e proprio tentativo di colpo di Stato.

LE OSTILITA’ DI SARAGAT

Il socialdemocratico Giuseppe Saragat, voluto dallo stesso Moro alla fine del 1964 per stabilizzare il suo governo, quando Segni lasciò il Quirinale per impedimento fisico, si rivelò per lo stesso Moro un presidente della Repubblica a dir poco indifferente, se non ostile. Quattro anni dopo, nel 1968, il capo dello Stato ratificò il licenziamento politico di Moro deciso nella Dc dalle correnti di Mariano Rumor, Amintore Fanfani e Ciriaco De Mita.

LA GRAZIA DI LEONE

Il democristiano Giovanni Leone, approdato al Quirinale alla fine del 1971, prima ancora della Pasqua successiva sciolse le Camere che lo avevano faticosamente eletto, alla ventitreesima votazione. Sei anni dopo, alle prese con il tragico sequestro di Aldo Moro, egli non condivise la linea della fermezza decisa dal governo monocolore dc di Giulio Andreotti, appoggiato esternamente dai comunisti, e predispose la grazia per Paola Besuschio, contenuta nell’elenco dei tredici detenuti con cui le brigate rosse avevano chiesto di scambiare il loro prigioniero. Ma i terroristi uccisero Moro poche ore prima che Leone potesse firmare il provvedimento che rischiava di dividerli. E il mandato del presidente si chiuse curiosamente qualche settimana dopo, sei mesi prima della fine ordinaria, con le dimissioni reclamate formalmente per presunte ragioni morali, smentite dal processo seguito alla campagna scandalistica condotta contro di lui per il cosiddetto affare Lookeed ed altro.

I GUIZZI DI PERTINI

Il socialista Sandro Pertini gli subentrò al Quirinale per scelta più del Pci, e della Dc, che del suo partito, in funzione di contrasto o di contenimento di Bettino Craxi. Che dovette fare buon viso a cattivo gioco. Ma Pertini già l’anno dopo gli affidò a sorpresa l’incarico di presidente del Consiglio. E riuscì a nominarlo davvero nel 1983, per cui due socialisti si trovarono contemporaneamente al vertice dello Stato e del governo.

LE PICCONATE DI COSSIGA

Per liberarsi di Craxi a Palazzo Chigi democristiani e comunisti dovettero attendere il 1987, quando Francesco Cossiga, approdato al Quirinale nel 1985, concesse all’allora segretario della Dc De Mita le elezioni anticipate con un governo scudocrociato, guidato da Amintore Fanfani, autoaffondatosi alla Camera. Dove a negargli la fiducia, con l’astensione, furono proprio i democristiani. Ma fu l’unica o ultima concessione di Cossiga, che nella parte finale del proprio mandato impugnò un piccone che tramortì letteralmente comunisti e sinistra dc.

LE GESTA DI SCALFARO

Il democristiano Oscar Luigi Scalfaro arrivò al Quirinale nel 1992 grazie anche alla fiducia o preferenza, rispetto a Giovanni Spadolini, espressa da Craxi, che ne ricordava la leale partecipazione ai suoi governi come ministro dell’Interno. Ma la prima cosa che fece il nuovo presidente fu quella di negare al leader socialista il ritorno a Palazzo Chigi concordato con la Dc. Prevalsero i rumori giudiziari anticraxiani raccolti al Quirinale allargando al capo della Procura di Milano le rituali consultazioni per la formazione del nuovo governo.

LE AUTORETI DI CIAMPI

Il successore di Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi, imponendo nel 2005 a Berlusconi una modifica della riforma elettorale per regionalizzare al Senato il premio di maggioranza, procurò alla sinistra, che pure lo aveva sponsorizzato al Quirinale, guai enormi. Romano Prodi tornò nel 2006 a Palazzo Chigi per restarvi meno di due anni, travolto al Senato da una maggioranza che non aveva. E Pier Luigi Bersani nel 2013, sempre a causa dei numeri del Senato, non riuscì a formare un governo, per quanto avesse conquistato alla Camera una maggioranza larghissima.

I DINIEGHI DI NAPOLITANO

Il post-comunista Giorgio Napolitano, infine, nel suo primo mandato ha riservato ai suoi ex compagni di partito prima la sorpresa di ritardare di almeno un anno la crisi dell’ultimo governo Berlusconi e poi di evitare, con il ricorso a Mario Monti, un turno di elezioni anticipate che essi avrebbero sicuramente vinto. Il secondo breve mandato, pur voluto dallo stesso Berlusconi, si è appena concluso con sollievo dell’ormai ex Cavaliere, che non ha perdonato a Napolitano la mancata grazia dopo la sua condanna definitiva per frode fiscale.



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