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Tutte le ultime novità sul mercato del lavoro

Secondo il “Rapporto annuale sul mercato del lavoro 2014” di InfoJobs, tra i profili in linea con le esigenze lavorative vi sono gli operai, addetti alla produzione e al controllo qualità, categoria professionale che si conferma la più ricercata per numero di offerte dedicate, con il 20,8% del totale nazionale (in leggero calo rispetto al 23,7% del 2013). Percentuali in crescita, invece, per addetti alle vendite, che passano dal 15,2% del 2013 al 17,1% del 2014, attestandosi come la seconda categoria più ricercata nel nostro Paese. A chiudere il podio: Informatica, It e telecomunicazioni con l’8,8% delle offerte, in lieve crescita rispetto all’8,5% dello scorso anno.

Amministrazione e contabilità e commercio al dettaglio chiudono la top 5 rispettivamente con l’8,6% e l’8,3% dell’offerta nazionale. Immaginiamo che qualche ‘’anima bella’’, prenda spunto da questi dati, per recitare la solita litania sulla ‘’disoccupazione intellettuale’’.

Ma si può fare l’operaio oggi, in posti di lavoro che richiedono un ricco know how tecnologico ed informatico, senza possedere almeno un diploma adeguato? Negli altri Paesi europei, dove è più elevato il tasso di scolarizzazione che da noi, non sono scomparsi gli operai e i tecnici. E’ la loro elevata preparazione di base che, in qualche modo, concorre ad ‘‘ammortizzare’’ gli investimenti delle imprese e ad accrescere la produttività del lavoro, attraverso un più intenso ‘’capitale sociale’’. Da noi è ancora presente una ‘’cortina’’, prima di tutto culturale, che separa la scuola dal lavoro (solo il 5% dei giovani compie esperienze lavorative durante il percorso formativo) e il lavoro manuale da quello intellettuale.

Si direbbe anzi, che negli ultimi decenni, vi sia stata una vera e propria regressione: basti pensare che, all’inizio degli anni ’70 del secolo scorso, venne introdotto, nella contrattazione collettiva, il c.d. inquadramento unico che interconnetteva tra loro, all’interno dei medesimi livelli retributivi, qualifiche tradizionalmente operaie ed altre impiegatizie, ritenute di analogo valore professionale. Poi, il Rapporto è basato sulle attività delle Agenzie del lavoro attraverso le quali transita solo il 4% di coloro che cercano un impiego.

Per quanto riguarda l’occupabilità dei laureati è consigliabile avvalersi delle rilevazioni di AlmaLaurea, (il Consorzio universitario, fondato da Andrea Cammelli, che dispone di due milioni di curricula di giovani laureati e che ne monitora le relazioni con il lavoro dopo uno, tre e cinque anni dalla laurea). Innanzi tutto è bene notare che, nell’intervallo di età 25-64 anni, i laureati godono di un tasso di occupazione più elevato di oltre 12 punti percentuali rispetto ai diplomati. Quanto ai laureati intervistati a cinque anni dal titolo, il tasso di disoccupazione si riduce a valori “fisiologici” (6%). La crisi economica, dunque, ritarda l’accesso al lavoro rispetto a tempi di attesa in precedenza più brevi.

Tuttavia, trascorso un periodo di maggiore difficoltà, i giovani laureati trovano un impiego. Seppure in calo, ad un anno dal titolo, gli occupati (comprendendo anche coloro che sono in formazione retribuita) sono attorno al 70% fra i laureati di primo livello, al 72% fra quelli specialistici e al 60% fra gli specialistici a ciclo unico. Cinque anni dopo, l’occupazione, indipendentemente dal tipo di laurea, è prossima al 90 per cento.

La crisi ha fatto sentire il suo peso sulla qualità del rapporto di lavoro. In sostanza, si sono allungati i tempi: la stabilità (intesa non in senso giuridico, ma come realizzazione delle prime aspettative del giovane) si è dilatata, ma, trascorso un quinquennio, arriva a coinvolgere 7-8 occupati su 10. Nella fase di transizione è in atto un aumento delle forme di lavoro atipiche. Addirittura, soprattutto per i percorsi che conducono alle libere professioni, è il tirocinio la prima tappa obbligata dell’ inserimento nel mercato del lavoro.

E’ in tale fragile contesto che il dibattito sul Jobs act Poletti 2.0 – a proposito della ‘’semplificazione’’ delle forme contrattuali – sembra tornato al 2007. L’associazione in partecipazione, il lavoro ripartito e quello intermittente subirebbero l’onta dell’abrogazione. È all’esame, poi, una revisione dell’importante riforma del contratto a termine, attraverso la riduzione a 24 mesi del suo utilizzo al riparo dalla trappola del ‘’causalone’’ e a tre sole possibili proroghe. Sarebbero errori gravi, questi, che non aiutano l’occupabilità dei giovani; perché è vano pretendere di incanalare le assunzioni verso il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti usando il bastone dei divieti e delle abrogazioni insieme alla carota degli incentivi, che, nella legge di stabilità sono certamente robusti, ma che riusciranno soltanto a ‘’drogare’’ il mercato del lavoro, mandandolo in crisi d’astinenza quando le risorse finiranno.

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