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Ecco come la sinistra Pd vuole azzoppare il Jobs Act

Mentre sta esplodendo il primo dei ‘’forni’’ di Matteo Renzi (quello delle riforme costituzionali e dell’Italicum) è presto per ritenere che, dopo il trionfo nell’elezione di Sergio Mattarella, il volitivo premier sia in condizione di servirsi addirittura di un quarto ‘’forno’’ ovvero di un’altra delle tante maggioranze intercambiabili – questa volta più orientata a sinistra – con la quale dare attuazione, nei decreti delegati, ai principi e ai criteri direttivi del Jobs act Poletti 2.0.

Eppure, i segnali sono palesi, i tentativi sono in atto. Nel parere della Commissione Lavoro del Senato, con il voto dei membri del Pd, Sel e M5S, è stato inserita – con l’opinione contraria del presidente-relatore Maurizio Sacconi (Ncd) – la richiesta al Governo di escludere i licenziamenti collettivi dalle nuove regole previste per i licenziamenti economici ingiustificati. Lo stesso farà certamente nei prossimi giorni la Commissione Lavoro della Camera, la quale non ha ancora fornito il parere a causa del prolungamento (caotico) dei lavori dell’Aula.

Si tratta di una pretesa che rende incoerente la nuova disciplina; perché, una volta espletata e terminata, in sede sindacale e amministrativa, la procedura prevista per i licenziamenti collettivi, nel momento in cui il datore di lavoro è ‘’autorizzato’’ a dare esecuzione agli esuberi, individuando nominativamente i singoli lavoratori coinvolti, si apre una fase di licenziamenti individuali per motivo oggettivo, correttamente sanzionabili, se ritenuti ingiustificati (in questo caso per vizi formali o per violazione dei criteri di selezione), con l’indennità risarcitoria al pari di quelli, di carattere individuale fin dall’inizio.

Ma le tracce della svolta a sinistra portano ben più lontano: in tema di lavoro (e di welfare) sembra di essere tornati al 2007, ai tempi dell’Unione, quando talune forme contrattuali esistenti in tutta Europa da noi venivano messe al bando in nome della lotta alla precarietà. A stare alle anticipazioni, pare che il 20 febbraio il Consiglio dei ministri varerà uno schema di decreto delegato riguardante le tipologie contrattuali nel quale sarà previsto non solo il ‘’superamento’’ (il termine usato nella delega dà l’idea della gradualità) delle collaborazioni.

Questa volta sotto la scure giustiziera del legislatore finirebbero taluni rapporti atipici (l’associazione in partecipazione, il lavoro ripartito e quello intermittente subirebbero l’onta dell’abrogazione), mentre verrebbe fortemente depotenziato l’effetto-flessibilità derivante dalla riforma del contratto a termine (il Jobs act Poletti 1.0). C’era comunque d’aspettarselo: a scorrere le norme di delega contenute nel Jobs act era assolutamente evidente il predominio di un filone di pensiero contrario al Pacchetto Treu e alla legge Biagi. Siamo sempre lì, a contemplare l’illusione della scorciatoia normativa: la ‘’cattiva’’ occupazione sparisce se si abrogano le ‘’cattive’’ leggi.

Come se fosse possibile vincere una febbre maligna gettando dalla finestra il termometro che l’ha appena misurata. Il sillogismo dei ‘’cattivi maestri’’ è sempre lo stesso: ‘’i ‘’padroni’’ (loro li chiamano così) sono costretti ad avere dei dipendenti; per farlo devono essere ‘’spinti’’ ad usare solo leggi ‘’buone’’ perché i ‘’bad acts’’ vanno abrogati; così, i lavoratori vengono assunti a tempo indeterminato’’. Ma poiché si sono resi conto che, alla fine, i ‘’padroni’’ preferiscono non assumere, piuttosto che doverlo fare come pare a loro, i ‘’cattivi maestri’’ arrivano al punto di costringere lo Stato a concorrere alla retribuzione dei lavoratori in regime di lavoro a tempo indeterminato (‘’Pago io purchè tu assuma come pare a me’’).

Non è un caso che nella legge di stabilità ‘’a gloria’’ del contratto di nuovo conio è operante un regime di robusti incentivi che, in pratica, consentirà alle imprese di accollare al solito Pantalone la retribuzione di un intero anno (sui tre previsti), per gli assunti nel 2015. Ciò premesso, per quanto riguarda le politiche del lavoro, anche in tema di pensioni il dibattito sembra essere tornato al 2007, ai tempi degli improperi contro il cosiddetto scalone della legge Maroni, il cui ‘’superamento’’, ad opera del Governo Prodi, costò ben 7,5 miliardi in dieci anni. Oggi sono in discussione i requisiti dell’età pensionabile (nel caso della vecchiaia anticipata) previsti dalla riforma Fornero.

Già, nella legge di stabilità, fino a tutto il 2017, si è già provveduto al ripristino, di fatto, del pensionamento di anzianità (abrogando quel simulacro di penalizzazione economica che era sancito prima dei 62 anni di età). Viene da chiedersi, allora, se il Governo abbia intenzione di risolvere taluni problemi del mercato del lavoro (come la fuoriuscita dalla copertura degli ammortizzatori sociali) attraverso un massiccio ed oneroso ricorso ai prepensionamenti. Ma come troverà le risorse?

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