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Come pacificare la Libia in ebollizione

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

L’Egitto di Al Sisi, presidente e già capo dei Servizi militari, sta bombardando la Libia dall’aria e da terra, per vendicare l’uccisione di 21 cristiani copti e di altri egiziani operanti in quell’ormai ex-Paese, uccisi a dicembre e gennaio.
L’esercito libico di Tripoli è ormai rinchiuso nel triangolo tra la capitale unitaria e il confine algerino, circondato dalle milizie degli amazigh, i berberi, con una piccola parte di militanti Tuareg, che tengono anche una parte del Fezzan orientale.

Il tutto mentre il Califfato dell’ISIS si è concentrato sul vero asse strategico libico, quello costiero, con la presa di Bengazi e Derna e la stabile minaccia verso le altre città della costa dell’antica Cirene.
Quella città, ricordiamo, fondata dai greci sulla base di un oracolo delfico, che ingiungeva agli abitanti di Santorini di creare una città in Libia.

E’ da Cirene, l'”Atene d’Africa” prima della barbarie nichilista della prima e della seconda islamizzazione, che la statua di Iside arrivò, da Alessandria, verso il litorale romano.
“Alba Libica” si pone, sulla costa tripolina, come una alleanza, non sappiamo quanto stabile, di gruppi islamisti, sostenuti da Qatar e Turchia.
A proposito, nessuno al Quartier Generale della NATO ha chiesto conto della linea di Ankara in Libia dalla rivolta antigheddafiana in poi? E pensare che i più caldi e ingenui sostenitori della “democrazia” libica, contro il Colonnello, erano proprio i francesi, contrarissimi all’ingresso della Turchia nella UE…

Gli obiettivi di Faijr Libia (Alba Libia) sono quelli di mantenere  l’alleanza del vecchio CNT e di unire i Fratelli Musulmani locali con alcuni dei movimenti jihadisti non  ancora integrati nella galassia ISIS.
Si trova nel retroterra di Tripoli fino a Brak e Ubari, mentre il sud della Cirenaica è ancora in mano, salvo Kufra e Jalu, alle armate di Khalifa Haftar, l’organizzatore dell'”Esercito Libico” filo-egiziano e, in linea di massima, amico degli USA e dell’UE.
La brigata Abu Salam è poi la struttura di combattimento di Ansar Al Sharia in Libia,  e opera nell’area sud del Fezzan al confine con le armate degli amazigh.

I Tebu sono nel centro del Fezzan, fino a Sabha, mentre i jihadisti non collegati ancora all’ISIS operano nel confine tra il Fezzan, il Mali e il Ciad.
Ecco, tutto questo per chiarire che la situazione è ancora fortemente instabile, e che certamente non è possibile gestire alcun rapporto definitivo  e credibile con nessuna delle forze in campo salvo, forse, le armate di Khalifa Haftar che, però, rispondono all’Egitto e al nuovo Re saudita, Salman.

Tanto diminuisce, fateci caso, il prezzo del barile, tanto aumenta la concorrenza militare, anche per interposta persona, tra le varie aree geoeconomiche dell’OPEC, e la Libia, terra del miglior greggio africano, è da sempre una zona di attrito; e non mi meraviglierei persino che l’Iran cercasse, sempre per interposta persona, il suo “campione regionale”.
L’ISIS non vuole, evidentemente, premere troppo sulle milizie di Haftar, che sono ben armate, e rimane sulla costa di Cirene a minacciare la Prima Roma di invasione.
E’ una minaccia credibile, ma a tempi certamente lunghi e con quelle tecniche che Liddell Hart chiamava “strategia indiretta”. Una tecnica indiretta sarà, certamente, l’immigrazione forzata e eccessiva verso le coste italiane, che utilizzerà due elementi che i capi del “Califfato” conoscono bene: la nostra difficoltà politica e tecnica, per non dire finanziaria,  a contenere i flussi migratori, grazie alle tante “anime belle” multiculturali, e lo squilibrio indotto così nei conti pubblici, nella società e nell’economia italiana.

Mandare troppi migranti è l’equivalente di una “bomba umana” che destabilizza le finanze e il tessuto sociale più a lungo e più in profondità di un atto terroristico.
Inoltre, spedire al proprio nemico i propri nemici interni è sempre stata un’ottima strategia.
Come kamikaze qaedisti o come massa umana incontrollabile, il danno inferto a noi sarebbe (e probabilmente sarà) incalcolabile.
I documenti della Fondazione Quilliam, costituita da un ricco libico ex-collaboratore di Osama Bin Laden, sono chiari al riguardo e credibili: infiltrare terroristi jihadisti via mare in Italia, il paese “crociato” più vicino alle coste libiche, e con ciò incendiare il Mediterraneo settentrionale e l’Europa.

Non è  affatto una affermazione da prendere sottogamba. Finora, il jihad ha fatto, sia pure in tempi non prevedibili, quello che ha detto.
“Emigrate a Roma”, già dice una campagna di reclutamento dell’ISIS tramite i social media.
Sorprende però che il governo di Matteo Renzi si sia trovato spiazzato e incerto su una tematica così nota e in un quadrante già da tempo in pericolosa ebollizione.
Che la Libia fosse ormai in preda al caos jihadista era cosa ben nota anche prima del “bayat”, del giuramento islamico di una parte di Ansar al Sharia nei confronti del Califfato sirio-iracheno.

E’ vero che ormai la nostra intelligence è, per vari motivi, ridotta al lumicino, in rapporto costante con politicanti che non valgono nemmeno l’ombra di un qualsiasi oscuro sottosegretario della Prima Repubblica, ma qui è in gioco non solo l’interesse nazionale, ma la stessa sopravvivenza come Paese.
Se dovessimo operare in Libia come occorrerebbe, e la gente, nella nostra intelligence, che può fare queste cose l’abbiamo già, troverebbe chissà quali difficoltà, pastoie e orpelli vari, e tutte le altre diavolerie che impediscono sia ai responsabili politici che a molti dirigenti del Servizio italiano di fare quello che, lo  so, sanno bene che dovrebbe essere fatto, e subito.

Come ho detto qui tempo fa, i nostri Servizi sono ormai diventati un Master di secondo livello in relazioni internazionali per politici inesperti.
Quindi, occorre creare un’asse politico e anche militare tra Italia, alcuni Paesi europei e il Maghreb antijihadista, una “coalition of the willing” tra NATO e ONU, per iniziare quello che l’organizzazione delle Nazioni Unite, che Cossiga chiamava giustamente un “ente inutile” , come i nostri 3.127 enti non ancora liquidati, ritiene una “peacekeeping operation”.
Già, ma dov’è la pace da “tenere” in Libia? Dove trovare forza amiche in quell’area, che si incarichino di stabilizzarla, in modo credibile? Ipotesi scolastica e ingenua.

Certo, il Palazzo di Vetro è una fonte di legittimità internazionale, grazie soprattutto al suo Consiglio di Sicurezza, ma gli interessi nazionali vanno pensati da soli. Nessuno ti fa la carità, in politica estera.
La richiesta dell’Egitto di Al Sisi di una copertura ONU per una azione multilaterale in Libia era sensatissima, ma occorre, visto che l’Italia non farà nulla, purtroppo, fuori dal verbiage onusiano sulla “soluzione politica”, fare qualcosa, e subito, sul terreno.
Quindi sarebbe utile che Roma si muovesse con Algeri e Tunisi, oltre che con l’Egitto, per sistemare militarmente le cose in Libia. Anche con nostri gruppi di militari.
Occorrerebbe utilizzare anche la disponibilità di Israele a dare una mano al Cairo per penetrare in Libia.

Ma i tempi delle decisioni europee e italiane saranno lunghi, troppo lunghi, e il pericolo incombe. Quindi non vedrei male una serie di operazioni sul territorio libico da parte nostra, che lo conosciamo meglio di chiunque in Europa, Operazioni di intelligence, di contatto preventivo con i nostri potenziali alleati sul terreno, magari in collaborazione, per quanto possa essere possibile, con le strutture operative di Israele, Egitto, Algeria e Germania, che non parteciperà alle azioni sul terreno, se ci saranno, ma, come accadde con la fase della caduta di Gheddafi, darà un sostegno di electronic intelligence.
Saranno da evitare, anche per la scarsa efficacia dimostrata nella tragedia di “Charlie Hebdò”, gli operatori dell’intelligence francese, passati dalla lezione di  quel maestro inimitabile di Alexandre de Marenches, un genio del Servizio (e grande gastronomo, come il nostro Federico Umberto d’Amato) alla lettura dei saggetti vacui e narcisisti di Bernard Henry Lévy, l’ex sostenitore di Pol Pot e della “rivoluzione culturale” cinese (ma non chiedetegli cos’era davvero, non lo sa) passato alla democrazia american style.

A parte l’ultimo diniego dell’ONU alla richiesta di Al Sisi, l’ultima risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, la 2174 del 27 agosto 2014, deplora (sì, deplora, come le vecchie zie evocate da Longanesi) l’aumento della violenza in Libia, condanna l’uso della violenza contro i civili, chiede al Consiglio Nazionale di operare con spirito di “inclusività” e, fin qui, c’è solo da sperare in Dio.
Allora, ipotizziamo un accordo politico-militare tra Algeria, Egitto, Marocco e Tunisia per chiudere al jihad lo spazio libico, e inoltre chiediamo, in un quadro NATO, la presenza della Sesta Flotta in acque libiche, per la inevitabile copertura delle operazioni. Poi mettiamo in conto fin da ora la creazione stabile di una élite libica. E chiediamo ad Algeria ed Egitto una tecnica di droit de regard sulla Libia, per evitare che il capolavoro di Italo Balbo, la riunione di Cirenaica, Tripolitania e Fezzan venga destrutturata, con danni incalcolabili per tutta l’Europa, non solo per l’Italia.

Giancarlo Elia Valori è professore di Economia e Politica Internazionale presso la Peking University e presidente de “La Centrale Finanziaria Generale Spa”



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