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Jobs Act, pregi e difetti dei decreti renziani

“Quant’è bella giovinezza/ che s’en fugge tuttavia/ chi vuol esser lieto, sia/ del doman non v’è certezza”. In questi versi sta tutto il pensiero politico di Matteo Renzi, dei giovani spensierati – allevati a nutella e politica – che gli reggono la coda nonché di qualche attempato signore che ha accettato di far parte della squadra, pur avendo esperienza di vita vissuta nel mondo reale.

Il messaggio è chiaro: vivere nel presente anche a costo di mandare a quel paese un pezzo di futuro. Non è stato forse così quando la legge di stabilità ha disposto che, dal prossimo 1° marzo, i lavoratori potranno intascare in busta paga il tfr per un triennio? Perché aspettare 8 anni per richiedere la quota accantonata allo scopo, magari, di acquistare un appartamento? Perché preoccuparsi di finanziare una pensione di “scorta” vista la gracilità del trattamento obbligatorio? Gaudeamus igitur!

Vuoi mettere la libertà di farsi una pizza o di acquistare una T-shirt (senza pretendere, ovviamente, che a lavarla sia la mamma, per non irritare le femministe)? Poi arriva il decreto Milleproroghe che ormai è divenuto una sorta di Pronto Soccorso per la legge di stabilità. In questi giorni, tutti – Governo e opposizioni, in prima fila – si contendono il merito della rimodulazione, nel decreto citato, dell’incremento dell’aliquota contributiva per i titolari di partita Iva iscritti in via esclusiva alla Gestione separata presso l’Inps. E la presentano come un aiuto concreto ai giovani.

Il problema è, per tanti aspetti, complesso: ma, di certo, la misura si ripercuoterà negativamente, a suo tempo, sull’importo della pensione, che, nel sistema contributivo, è ragguagliato all’ammontare dei versamenti. Non sembra una buona politica contestare – soprattutto se si è giovani – un sistema pensionistico troppo oneroso per quanto riguarda il prelievo sul reddito disponibile, tagliando con le proprie mani il trattamento atteso nel futuro.

Sempre nel nome dei giovani, il Governo ha varato i decreti attuativi del Jobs act Poletti 2.0 prendendo a picconate la legge Biagi con l’obiettivo di abolire o manomettere quelle forme contrattuali che, secondo il pensiero giuridico sinistrorso, sono all’origine del precariato anziché costituire un modo concreto per regolare delle esigenze specifiche delle imprese e dei lavoratori. Indipendentemente da quali rapporti atipici e’ caduta la scure e a prescindere dalle misure che saranno operanti nella fase di transizione sorgono alcuni interrogativi che scaturiscono dalla realtà dei fatti. In Italia, secondo le statistiche, ci sono 503mila cocopro, 360mila lavoratori “a chiamata”, 615mila in posizione di lavoro accessorio; persino 42mila associati in partecipazione.

Tralasciamo per il momento i 2,5 milioni che lavorano a termine, poiché la normativa (definita nel Jobs act Poletti 1.0) non dovrebbe cambiare. Bene. C’è forse qualcuno che ritiene sufficiente un pacchetto di norme per applicare, d’acchito, ai suddetti lavoratori, il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti? Oppure è più credibile che tanti posti di lavoro andranno perduti o finiranno nell’economia sommersa?

Chi scrive continua a pensarla come Marco Biagi: la riunificazione del mercato del lavoro non potrà mai trovare posto, in modo forzato, in un contratto a tempo indeterminato ancorchè caratterizzato da tutele meno ossessive sul versante del recesso. La via indicata dal professore bolognese, del quale tra un mese ricorre l’anniversario dell’assassinio, poggiava sull’obiettivo di politiche di protezione sociale e di welfare tendenzialmente uniformi per tutte le tipologie di lavoro “economicamente subordinato”.

Il Governo Renzi ribadisce, invece, la linea dell’unificazione forzata all’interno del contratto di nuovo conio (drogando il mercato del lavoro con robusti, ma temporanei, incentivi all’assunzione), mentre adotta – si veda il decreto su Naspi e dintorni – misure sperimentali, prive della necessaria copertura finanziaria, incerte nella continuità di erogazione, ancora divisive e sostanzialmente ripetitive delle modeste tutele già esistenti da anni, per quanto riguarda le politiche di protezione del reddito che cambiano solo nome ma non sostanza. La linea attuativa del Jobs act si caratterizza, dunque, per uno squilibrio: minori opportunità di occupazione e tutele ancora differenti e inadeguate.

Per quanto riguarda i contratti a progetto occorrerebbe prevedere la continuità (almeno fino alla scadenza) di quelli certificati prima dell’entrata in vigore della legge o nei 60 giorni successivi. Sarebbe, poi, il caso – a fronte del “superamento” della tipologia in termini generali – di consentire alle parti sociali di avvalersi di deroghe nella contrattazione collettiva, nazionale e decentrata, ove se ne ravveda l’esigenza, purché le norme relative siano sottoposte, anch’esse, a certificazione.

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