Quali sono i veri interessi nazionali dell’Italia nella Libia in cui guerre civili mai risolte si intrecciano con la feroce offensiva dello Stato islamico? E vi è un modo efficace per salvaguardare un potenziale volume di scambi commerciali che ammonta a 40-50 miliardi di euro?
A ragionare su questi interrogativi sono gli analisti, storici, diplomatici e responsabili industriali protagonisti del convegno “Libia e Italia: un dibattito aperto”, promosso ieri dalla Link Campus University di Roma.
Un panorama frastagliato
A rendere complesse le scelte che attendono il nostro paese, ha ricordato il presidente dell’ateneo e rappresentante di lungo corso della Democrazia cristiana Vincenzo Scotti, è lo scenario più che mai magmatico della nazione nordafricana.
“Due governi rivali a Tobruk – quello laico riconosciuto a livello mondiale ma molto fragile e quello fondamentalista islamico a Tripoli – 230 milizie e 140 tribù che aggregano l’82 per cento della popolazione, la presenza del Califfato, i rilevanti interessi geo-strategici ed energetici dei paesi europei e arabi, l’acquisizione dei considerevoli arsenali militari ad opera dei gruppi armati in campo”, ha detto Scotti, già ministro degli Esteri.
L’Egitto unica nazione attiva sul terreno libico
Tanto più, ha rimarcato l’inviato del Sole 24 Ore Alberto Negri, in una Libia priva di identità statuale. “L’aveva provata a creare in forma brutale il regime di Muammar Gheddafi, appoggiato da tutti i governi europei fino all’inizio della “Primavera araba” e all’intervento armato promosso da Francia e Gran Bretagna. Fattore di lacerazione della nazione nordafricana, in cui ha attecchito l’Isis che l’azione militare egiziana tenta di fermare”. L’unica in corso fin dal 2014, osserva il giornalista, visto che Nato, Usa e Nazioni Unite non hanno la volontà di agire sul territorio.
Meglio dividere la Libia in tre aree
Una ricetta per affrontare la crisi libica con un’ampia responsabilità internazionale è prospettata da Antonello Biagini, professore di Storia dell’Europa orientale all’Università “La Sapienza” di Roma e autore del libro “C’era una volta la Libia: 1911-2011”.
“Quattro anni fa proposi una tripartizione geo-politica della Libia per risolverne i problemi storici nella cornice dell’assenza di uno Stato nazionale di matrice liberale. Adesso, rispetto all’offensiva dei fautori del Califfato, bisogna puntare su un’opzione diplomatica per congelare il conflitto. Altrimenti l’unica scelta è un intervento militare su larga scala contro l’Isis”.
Le carenze nella lettura dello Stato islamico
Improntato a scetticismo riguardo un’opzione del genere è il ragionamento di Carlo Jean, fra i più noti studiosi di geopolitica oltre che professore di Studi strategici alla Link Campus University di Roma.
Rilevando come gli interessi italiani in Libia siano essenzialmente interessi mercantili, l’analista ritiene strano che il governo di Roma voglia accreditare a se stesso un ruolo centrale nell’affrontare il problema libico, senza rendersi contro delle attuali forze in campo.
“E soprattutto dell’enorme capacità di attrazione economico-amministrativa e teologica-apocalittica del Califfato, che porta avanti una guerra di religione. Non è casuale che il presidente egiziano Al-Sisi abbia caldeggiato una lettura innovativa del Corano e dell’Islam per renderla conciliabile con la modernità”.
È preferibile una linea di attesa
La linea di azione più ragionevole, rileva lo studioso, è guardare cosa accade. “Facendo affidamento per il controllo delle risorse energetiche sull’organizzazione parastatale parallela che è l’Eni, finora non toccata da nessuno”.
Il ruolo dell’Eni
Azienda cruciale per il rilievo del ruolo geo-strategico dell’Italia nei paesi nordafricani, il cui direttore Affari istituzionali Pasquale Salzano apprezza il tentativo messo in atto dal governo italiano per porre il tema Libia al centro dell’agenda internazionale.
“La ragione è fin troppo evidente per i risvolti nel terreno dell’immigrazione, della sicurezza, delle forniture energetiche”.
La strategia dell’Eni è appoggiare il processo negoziale portato avanti dalle Nazioni Unite: “Percorso che potrebbe colmare i propri limiti ed essere rafforzato con il coinvolgimento della Russia e la leadership di una personalità italiana di grande livello”.
Coinvolgere Algeria e Iran
L’esclusione di un intervento armato ritenuto incerto per le forze armate del nostro Paese, per le alleanze da costruire sul campo, per le incognite di una riconciliazione nazionale tutt’altro che agevole, trova concorde Alessandro Merola, già ambasciatore italiano in Indonesia e Serbia, vice-segretario generale della Farnesina, attualmente in servizio presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Ad avviso del quale è molto più significativo valutare cosa avviene al di fuori dei confini della Libia, in una grande area compresa tra Nigeria e paesi a ridosso della penisola arabica a rischio predominio del fanatismo musulmano. “Ragion per cui è necessario creare un ‘cordone sanitario’ al fine di contenere i danni. Coinvolgendo realtà come l’Algeria”.
Oltre ad Algeri, evidenzia Maurizio Melani – già ambasciatore in Etiopia e Iraq e direttore generale per la Promozione del Sistema Paese presso il Ministero degli Esteri – bisogna rendere partecipe alla stabilizzazione della Libia Teheran, “partner fondamentale per un assetto di lungo termine”. Mentre nell’eventualità di un intervento di peace-enforcement “è preferibile evitare la partecipazione delle forze armate occidentali”.