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Ecco la coalizione (ben poco padana) di Matteo Salvini

Della vecchia Lega è rimasta, essenzialmente, la rivolta fiscale, l’anima intrisa di risentimenti e di egoismi che, all’inizio degli anni 90, cominciò a serpeggiare lungo le valli bresciane e bergamasche. Ma quello che non c’è più è l’involucro padanista, la mitopoiesi bossiana che reagì alla crisi della mediazione democristiana inventando un discorso più neopagano che neoluterano, ovvero un discorso che accompagnava all’esecrazione di Roma ladrona i riti dell’improbabile culto rivolto a un Pò quasi divinizzato.

Per differenziarsi, anche così, dal rottamatore Matteo Renzi, dal palco di piazza del Popolo Matteo Salvini ha, peraltro, reso esplicito omaggio a Bossi, come del resto a Miglio e a Maroni. Ma alla mente sveglia del giovane Salvini il gergo e la mitologia padanista devono sembrare roba vecchia. Perché ha capito che oggi il problema non è più quello di un quarto di secolo fa, ovvero trovare un’idea che unificasse i ceti produttivi di un Nord-Est politicamente orfano della protezione Dc, ponendolo al riparo dalla crisi della Prima Repubblica. Gli obiettivi di oggi sono diversi e sono due. Primo, cogliere l’occasione costituita dalla contemporanea crisi del Movimento Cinque Stelle e di Forza Italia, dilagando dal Nord verso le verdi praterie di possibili successi elettorali, a partire dall’ormai prossima tornata regionale. Secondo, costituire, in dimensione europea, un fronte avverso a una Unione a trazione germanica e, specificamente, merkeliana.

Per perseguire questi due obiettivi, il vecchio armamentario narrativo della Lega Nord – quello che consentiva a un inquietante buontempone come Mauro Borghezio di augurare, nel corso di immeritate ospitate radiofoniche, “Buona Padania a tutti” – non serve più. Salvini se ne libera delicatamente, senza polemizzare con i padri fondatori, ma si trova subito di fronte a un altro problema: disegnare una nuova identità che gli consenta di conquistare nuovi consensi nel Centro-Sud, senza perdere quelli antichi, ben radicati nel Varesotto o nella Marca Trevigiana.

A questo è servita la manifestazione svoltasi a Roma sabato 28 febbraio. Un’iniziativa convocata, nominalmente, per mandare a casa l’attuale capo del Governo, Matteo Renzi, ma volta, in realtà, a ridefinire fisionomie politico-culturali e rapporti di forza all’interno della destra. E vediamo dunque come Salvini ha svolto il compito che si era autoassegnato. Se non andiamo errati, prima che il nuovo aspirante leader della destra italiana prendesse la parola, sul palco di piazza del Popolo si sono susseguiti 13 interventi, divisi, per così dire, in due tempi successivi.

LA COALIZIONE SOCIALE

Primo tempo, e questa è già una scelta significativa, interventi rappresentativi delle figure che dovrebbero aggregarsi nell’ancora magmatica coalizione sociale (toh, anche lui) immaginata da Salvini. Si comincia con un esponente degli esodati. Insomma, i lavoratori dell’industria schiacciati fra crisi economica e iniziative politiche assunte dalle élite europeiste tipo Monti. Secondo: un padre separato. Occasione per parlare male di uno Stato che, con un’alleanza “politicamente corretta” fra giudici e assistenti sociali, strappa i figli ai padri separati, alterando artificialmente una struttura “naturale” come la famiglia. Terzo: un medico – figura positivamente orgogliosa dell’attività di volontariato prestata alla stazione Centrale di Milano – che si appella al Ministro Lorenzin affinché non tagli risorse ai Pronto Soccorso degli ospedali italiani. Insomma, difesa del welfare contro i vessilliferi della spending review. Quarto: un allevatore che torna sull’annosa questione delle quote latte. Vabbeh, si vede che un po’ di vecchia retorica padanista serve ancora.

Ma andiamo avanti. Il quinto è un pescatore, laureato in biologia, che assieme al padre ha una quarantina di dipendenti e ce l’ha contro le regole limitative imposte sulla pesca dai signori di Bruxelles. E chiude brillantemente augurando: “Buoni bastoncini Findus a tutti”. Dunque, viva la piccola impresa, abbasso le multinazionali (in questo caso dell’alimentare) e la regolite ossessiva della Ue. Poi arriva Greta, una studentessa, che usa un linguaggio che potrebbe essere usato anche da una giovane renziana: “Vedere tanta gente che vuol cambiare questo Paese con Matteo è veramente emozionante”. Solo che, precisa, dei due Matteo oggi presenti sulla scena politica lei si riferisce a “quello giusto”. E vai! Infine c’è un poliziotto, o piuttosto un sindacalista dei poliziotti, che denuncia le penose condizioni di lavoro in cui i tutori dell’ordine sono costretti a operare. E si pone come paladino della brava gente: “Perché noi siamo brava gente”. Fine della prima parte.

LA COALIZIONE POLITICA

E veniamo alla seconda parte, quella in cui trovano spazio i rappresentanti di quelle forze politiche che dovrebbero avvicinarsi o forse allearsi, per non dire unificarsi, sotto la leadership di Matteo Salvini. L’intervento n. 8 è quindi affidato a tal Armando Siri, leader del Pin, ovvero, come si apprende consultando Internet, del Partito Italia Nuova. Il simbolo del Pin è un buco della serratura iscritto dentro un cerchio. Slogan coordinato all’immagine: “La chiave sei tu!”. Ora quella del Pin, Siri non se ne avrà a male, è una sigla sconosciuta ai più. Tuttavia Salvini gli affida il compito di svelare per primo quale sia la vera proposta politica, non per caso di natura fiscale, della condenda coalizione social-politica: la flat tax al 15%.
Dopo Siri prende la parola Souad Sbai, un’ex parlamentare italiana che fu eletta alla Camera nelle liste berlusconiane, ma in quota finiana. Sbai trova modo di prendersela con Alfano. E questo è un piccolo capolavoro di Salvini. Perché l’attacco contro il Ministro degli Interni, che nella retorica leghista è accusato di essere troppo morbido in materia di immigrazione, non viene affidato a un rumoroso alfiere delle adunate sul pratone di Pontida, tipo Calderoli, ma a una donna di origine marocchina. Bel colpo.

Tocca quindi a Simone Di Stefano, vicepresidente di Casa Pound. A chi ci chiede perché noi siamo qui, oggi, in questa piazza, argomenta Di Stefano, rispondo che noi “condividiamo ogni singola parola” di Matteo Salvini. E lancia infatti tre parole d’ordine che fanno già parte delle idee propagandate dall’erede di Umberto Bossi: “No Euro”, “Stop immigrazione” e “Prima gli italiani”. Come vedete, il quadro si sta componendo.

E ora siamo, per così dire, ai grossi calibri. L’intervento n. 11 è infatti quello affidato all’on. Giorgia Meloni, Presidente di Fratelli d’Italia. Il che ci conferma, dopo le parole di Di Stefano, che le vecchie ruggini fra i nordisti, quasi secessionisti, della Lega e i nazionalisti dell’area post-missina, e quindi post-fascista, sono state spazzate via. Non siamo più nella fase in cui al centro della scena c’era la querelle su uno slogan divisivo come “Roma ladrona”, identitario per i primi e del tutto inaccettabile per i secondi, cultori della romanità. Il problema avvertito oggi, in modo acuto, dai vari spezzoni dell’estrema destra italiana è un altro, ed è costituito da ciò che dicono e ciò che fanno quei signori che stanno a Bruxelles, sede della Ue. E la notizia è che il fatto di condividere la stessa sofferenza finisce per offrire un terreno per un’azione unitaria a Salvini come a Di Stefano e a Meloni.

Intervento n. 12: Luca Zaia, Presidente uscente della Regione Veneto, particolarmente caro a Salvini perché esempio del “buon governo” leghista, e quindi ricandidato alla guida della stessa Regione nelle ormai imminenti elezioni. Quando Zaia prende la parola, la Meloni ha già annunciato che la prossima iniziativa di Fratelli d’Italia si svolgerà tra qualche giorno a Mestre. Insomma, il Veneto come laboratorio della nuovissima destra di governo, che si aspetta di vincere contro il Nuovo Centro Destra di Alfano ed è disposta a fare a meno di Berlusconi e di ciò che rimane di Forza Italia.

Ma non è tutto. Perché adesso parte il videomessaggio di Marine Le Pen, dedicato al “nostro amico Matteo”. Videomessaggio che serve a dimostrare che, dopotutto, leghisti e soci non sono dei provinciali ma hanno una loro proiezione europea. Perché loro non sono contro l’Europa, ma contro chi dirige l’Unione. E Marine, infatti, si fa paladina di un’unica lotta che, da un lato, combatta il liberismo selvaggio e, dall’altro, l’eccesso di regolamentazione che caratterizza il parasocialismo della stessa Ue. Et voilà!

(primo di una serie di articoli che saranno pubblicati domani e dopodomani)



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