La lunga amicizia tra Israele e Stati Uniti non è finita, ma i rapporti tra i due Paesi non sono mai stati così logori. Nonostante le critiche della Casa Bianca, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha deciso di tenere ugualmente ieri il suo discorso davanti al Congresso, in un estremo tentativo di convincere la politica americana a fare marcia indietro su un possibile accordo con l’Iran nel negoziato nucleare in corso.
LE PAROLE DI OBAMA
In un’intervista esclusiva all’agenzia Reuters, Barack Obama ha giocato in anticipo la carta mediatica, gettando acqua sul fuoco, ma mantenendo una posizione ferma. Non “c’è nulla di personale” con Netanyahu, ha detto, ma esiste tuttavia un “sostanziale disaccordo” tra Israele e gli Stati Uniti su come risolvere la questione atomica con Teheran.
IL BOICOTTAGGIO
Quasi un quarto dei democratici, racconta il quotidiano politico The Hill, ha dato forfait al discorso del leader di Tel Aviv: almeno in 57 – otto senatori e 49 deputati – hanno manifestato così il loro dissenso nei confronti di Netanyahu. Nemmeno il vicepresidente degli Stati Uniti, Joe Biden, si è presentato, perché impegnato in America centrale. Un segnale evidente di attrito, perché solitamente il vicepresidente, come presidente del Senato, è presente ai discorsi tenuti dai leader stranieri in Congresso.
COSA DIVIDE I LEADER
Dopo una lunga escalation, le tensioni sono esplose la scorsa settimana, quando il primo ministro di Tel Aviv ha rifiutato l’invito ad incontrare i senatori democratici in privato nella sua visita a Washington. Ha accettato invece un invito da parte dei leader repubblicani a partecipare alla odierna seduta congiunta del Congresso. La scelta aveva scaldato gli animi dell’amministrazione statunitense, secondo cui la mancata consultazione dei leader del Gop con Barack Obama riguardo la visita di un premier straniero costituirebbe “una violazione del protocollo“. E ha avuto come risultato che il presidente democratico si sia detto già impegnato in occasione del viaggio negli Usa del premier israeliano.
Dietro queste beghe politiche, vi sono però, come ricordato da Obama nella sua intervista, problemi concreti. I negoziatori del gruppo 5+1 si starebbero orientando per un accordo che preveda il congelamento del programma iraniano per più di dieci anni (una scelta criticata anche da Teheran, che ha definito tale ipotesi “inaccettabile”). Agli antipodi, invece, la posizione di Tel Aviv, che vorrebbe impedire alla Repubblica Islamica qualsiasi tipo di sviluppo nucleare.
IL DISCORSO DI NETANYAHU
Un concetto ribadito nel suo discorso da Netanyahu. “Qualsiasi accordo con Teheran include grosse concessioni che non impediranno all’Iran di ottenere un’arma nucleare“, ha argomentato il premier israeliano, che si trova in piena campagna elettorale (il 17 marzo sarà di nuovo candidato). Due sono quelle che preoccupano Israele: “La prima è che l’Iran resterebbe con un vasto programma nucleare; la seconda è che le restrizioni al programma verrebbero tolte dopo un decennio“. “Nessuna struttura sarebbe demolita“, ha sottolineato. “Ecco perché è così cattivo questo accordo. E allora perché vogliono concluderlo? Perché credono – ha aggiunto – che l’Iran cambierà nei prossimi anni? L’Iran ha più volte dimostrato che non ci si può fidare“. Se Teheran cambia il suo comportamento, ha concluso, “le sanzioni dovrebbero essere tolte. Altrimenti no. Se l’Iran vuole essere trattato come un Paese normale, deve comportarsi come un Paese normale“. Teheran “ha dimostrato di non essere affidabile” e la sua “battaglia contro l’Isis non lo rende un amico“, perché “sostiene il terrorismo nel mondo“.
GLI EFFETTI GEOPOLITICI
Questo scambio di accuse rende il clima torrido, ma non scalfisce la speranza che il dossier Iran possa presto essere chiuso. Il limite per un’intesa definitiva rimane quello fissato al 30 giugno di quest’anno, ma il via libera politico all’accordo potrebbe già arrivare entro la fine di marzo, portando con sé importanti conseguenze geopolitiche ed economiche, anche per l’Italia. Il nostro Paese spinge per un accordo che aumenterebbe notevolmente gli scambi commerciali di Roma con la Repubblica islamica. Ma è nel mondo arabo che ci sono i movimenti maggiori e coinvolge la secolare guerra tra sunniti e sciiti. Un ritorno sulla scena di un attore importante come l’Iran sciita produrrebbe effetti a catena su molti teatri – Yemen, Siria, Irak e Afghanistan per citarne alcuni – contribuendo non poco alla loro stabilità. Uno scenario che preoccupa Un braccio di ferro secolare che oggi vede contrapposte due potenze come l’Arabia Saudita, sunnita che teme che Teheran, libera da sanzioni e legittimata politicamente sul piano internazionale, possa mettere a repentaglio la sua supremazia regionale. Per questa ragione Riyadh, preoccupata anche dall’avanzata del Califfato nero, ha intensificato in queste ore i colloqui diplomatici con Qatar, Turchia, Egitto e – sotterraneamente – anche con Israele. L’Occidente osserva, attento e anche un po’ preoccupato. Se il dialogo con la Repubblica Islamica dovesse fallire, l’Iran potrebbe ritrovarsi costretto a optare definitivamente per un accordo strategico di lungo periodo con due Paesi in rapporti contrastanti con Usa ed Europa, ovvero Russia e Cina.