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Vi spiego le vere mire di Putin in Ucraina. Parla Walter Russell Mead

Il viaggio di Renzi in Russia, la crisi ucraina, l’avanzata dello Stato Islamico in Libia e i complessi negoziati di Obama per un accordo sul nucleare iraniano. Ecco i temi affrontati in una conversazione di Formiche.net con Walter Russell Mead, uno dei più noti politologi americani, impegnato in un tour europeo che ha toccato anche Roma. Saggista ed editorialista, già senior fellow del Council on Foreign Relations di New York, il docente insegna politica estera al Bard College e a Yale ed è stato .

Professore, in una sua analisi recente su The American Interest, lei sostiene che l’Occidente non abbia veramente compreso la strategia di Putin in Ucraina. Cosa intende?

Putin ha due obiettivi in Ucraina: uno positivo e l’altro negativo. Vorrebbe raggiungerli entrambi, ma può vivere tranquillamente anche ottenendone uno solo. Quello positivo sarebbe includere tutta o larga parte del territorio di Kiev in un’area d’influenza russa simile a una nuova Unione sovietica. Ma se non può fare questo, il suo secondo obiettivo, quello negativo, è di impedire che l’Ucraina consolidi i suoi legami e la sua integrazione con l’economia e la politica occidentale. Se riesce a raggiungere ciò, quella di Kiev rimarrà una sorta di zona d’instabilità, che sarà anche un grosso costo per l’Occidente per molti anni a venire. Il Fondo Monetario Internazionale ha appena approvato un nuovo piano di aiuti da 17,5 miliardi di dollari a favore del Paese, con i quali pagare tra l’altro il gas che la stessa Russia gli vende. Putin non è in una cattiva posizione in Ucraina, tutto ciò che deve fare è rovinare la quiete. E può farlo facilmente, perché se la situazione dovesse migliorare, deve solo creare un altro po’ di tensione nell’Est, facendo perdere fiducia a potenziali investitori.

I governi italiano e statunitense hanno in questo momento un’opinione diversa della crisi ucraina, in particolare quando si parla di sanzioni. Come è stata valutata oltreoceano la visita di Matteo Renzi a Vladimir Putin?

Spero che quel che Renzi abbia fatto a Mosca sia di spiegare a Putin che l’Italia è passionalmente devota alla causa della democrazia e del diritto internazionale e che è sconvolta dal comportamento russo. Questo è quel che mi auguro.

A preoccupare l’Italia è anche il deterioramento della situazione in Libia e il contestuale avanzamento dei jihadisti dello Stato Islamico. Crede che la diplomazia sia sufficiente?

La Libia è davvero in cattive acque. Spero che chi aveva promosso un intervento in Libia convinto di portare avanti una causa umanitaria, si vergogni profondamente per questo. Se l’Irak ci ha insegnato qualcosa che avremmo dovuto imparare, è che quando sei di fronte a una dittatura che distrugge la società civile e impone un’unità attraverso la tirannia, se la rimuovi ciò che ottieni è il caos. E il fatto che l’Occidente abbia rimosso Gheddafi senza avere la benché minima idea di ciò che sarebbe venuto dopo, è stato estremamente stupido. I libici hanno già pagato un prezzo terribile per questa incoscienza e ora anche la gente in Italia inizia purtroppo ad avvertire le conseguenze di ciò. C’è un vecchio detto che dice: “È molto più facile trasformare un acquario in una zuppa di pesce, che non una zuppa di pesce in un acquario”. Sarà molto difficile riportare indietro la situazione a com’era prima.

Qual è lo stato dei negoziati sul nucleare iraniano?

Credo che il presidente Obama abbia fatto davvero un buon lavoro nel portare il gruppo dei 5+1 a una sorta di accordo con l’Iran. Un esercizio molto difficile, perché i Paesi in questione hanno tutti agende differenti. Il problema, tuttavia, è che in verità siamo di fronte a un gruppo di 5+4. Il +2 è Israele, il +3 è Arabia Saudita e il +4 è Congresso degli Stati Uniti. Questi tre attori, che non partecipano ufficialmente ai negoziati, si trovano su posizioni totalmente differenti dal gruppo dai 5+1.

Il Congresso Usa – che ha ospitato tra le polemiche Netanyahu e ha inviato una contestata lettera all’Iran – ha davvero il potere di bloccare l’accordo?

Israele e il Congresso hanno fatto il rumore maggiore. Ma sono i sauditi, a mio parere, ad avere al momento la strategia più chiara per impedire un accordo. Stamattina ho letto sul Wall Street Journal che l’Arabia Saudita, scontenta per una possibile intesa fra Washington e Teheran, ha annunciato un accordo di cooperazione nucleare con la Corea del Sud.

Che implicazioni avrà?

Almeno due ed entrambe rilevanti. In primo luogo, l’Iran avrà molti motivi in più per non interrompere il proprio programma nucleare. Secondo, diventa molto più difficile per il presidente Obama convincere la gente negli Stati Uniti o in Israele che il suo approccio possa incrementare la stabilità in Medio Oriente. Temo che l’amministrazione americana abbia atteso troppo per creare un consenso attorno sull’accordo anche nei tre Paesi che ho citato.

La scelta saudita di non ridurre la produzione del petrolio è uno degli effetti di questa mancanza di consenso?

Assolutamente sì. La strategia di tenere basso il prezzo della materia prima è studiata in tutto e per tutto per colpire l’Iran. Teheran dipende molto dagli introiti derivanti dalla vendita di prodotti petroliferi. I sauditi sono molto più preoccupati del potere iraniano nella regione di quanto non lo siano per lo shale oil americano. Certo, non gli dispiace di prendere due piccioni con una fava, ma al momento la minaccia più grande alla sua sicurezza nazionale, secondo l’Arabia Saudita sunnita, è l’Iran sciita.

Nella National Security Strategy, presentata il 6 febbraio alla Brookings Institution dal National Security Advisor Susan Rice, si dichiara per la prima volta in modo chiaro che l’aggressività cinese in campo informatico è fonte di pericolo per gli Stati Uniti. Crede che il rafforzamento dei legami transatlantici – Ttip ma non solo – possa bilanciare in qualche modo l’ascesa di Pechino?

Non penso che dossier come il Ttip vadano letti in un’ottica anti cinese. Credo piuttosto che molte persone negli Usa e in Europa ritengano che rapporti più profondi e più liberi fra le nostre economie possano rafforzare la cooperazione transatlantica. In particolare gli Stati Uniti sono preoccupati delle condizioni economiche di alcuni Paesi del Sud Europa. Sin dallo scoppio della crisi finanziaria e i problemi dell’area euro, noi guardiamo a Stati come l’Italia e la Spagna con grande inquietudine, perché riteniamo molto pericoloso che una generazione di giovani possa ritrovarsi senza lavoro. In questo senso, crediamo che aprire maggiormente i nostri rispettivi mercati possa anche creare nuove opportunità per uscire da questa brutta situazione.

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