È sufficiente che Maurizio Landini incontri nella sede della Fiom qualche amico di Emergency, di Libera e dei Comitati per l’acqua pulita perché si scateni una tempesta mediatica da fare invidia a quella sollevata dalle “cene eleganti” di Berlusconi. È sufficiente, inoltre, che avanzi una proposta fumosa (la “coalizione sociale”) e rilanci uno slogan vecchio come il cucco (la “riunificazione del lavoro”) perché a sinistra “s’odano squilli di tromba”.
Tutto ciò la dice lunga sullo stato comatoso in cui versa la battaglia delle idee dalle parti di Largo del Nazareno. Il gelo di Susanna Camusso nei confronti del capo dei metalmeccanici cigiellini è comprensibile. Più Landini si accredita come vero e unico antagonista di Renzi, più viene messa in gioco la sua leadership fiacca, incapace di valorizzare il pur cospicuo patrimonio di esperienze e di capacità negoziali che giace nelle periferie della confederazione maggioritaria.
In fondo, il sindacato della Camusso in questi anni è apparso diviso tra un impulso partecipativo appena accennato e un istinto conflittuale assai pronunciato. Uno strabismo pratico che ne ha menomato prestigio sociale e autorevolezza contrattuale. Una permanente oscillazione tra le sue culture storiche, che ha sfibrato un gruppo dirigente in confusione di fronte all’offensiva renzista. Che il suo stato di salute sia precario, lo dimostra anche la posizione assunta dal segretario della Fiom sulla questione della democrazia interna.
Landini è tornato sulla necessità del ricorso alle primarie per la scelta dei gruppi dirigenti. Non è una novità assoluta, ma forse è l’unica proposta da lui formulata che merita di essere presa seriamente in considerazione. Riflettiamo su un punto. Nella storia della Cgil i cambiamenti più significativi di leadership – da Agostino Novella a Luciano Lama a Bruno Trentin – sono stati sempre espressione di svolte strategiche. Inoltre, non ci si affidava al tesseramento automatico e ai servizi di patronato come grandi collettori del consenso. Forse anche per queste ragioni, però, i gruppi dirigenti erano più rappresentativi e più influenti.
Oggi la situazione è diversa. La stessa macchina congressuale continua ad essere trainata dalle regole non scritte della fedeltà e della cooptazione. Ciò contribuisce anche a spiegare il paradosso di un sindacato i cui iscritti votano largamente per Grillo o per il centrodestra, mentre quasi tutte le postazioni di comando sono occupate da esponenti del Pd o della sinistra radicale. In ultima analisi, se gli iscritti continuano a non avere – di fatto – alcuna voce in capitolo nella formazione delle decisioni e nella selezione di chi decide, il rischio di uno scollamento tra vertici e base diventa endemico. Quella delle primarie sindacali, allora, è un’ipotesi da non gettare alle ortiche.
È comunque sicuramente più allettante di procedure congressuali barocche e bizantine, adatte solo a scoraggiare la partecipazione dei lavoratori e a premiare i signori delle tessere. Del resto, dirigenti di spicco della Cgil hanno convintamente sponsorizzato il metodo delle primarie adottato dal Pd, e alcuni di loro si sono addirittura candidati nelle varie liste in lizza per l’elezione del suo segretario. Un po’ di coerenza, insomma, non guasterebbe.