La Rai e più in generale il sistema dei media in Italia negli anni 90 sono stati conformi al clima fondamentalmente positivo che ha caratterizzato quel decennio. Perché clima positivo? La riposta è evidente: visti da oggi, gli anni 90 si collocano tra due eventi epocali.
Da una parte abbiamo, nel 1989, la caduta del Muro di Berlino, la fine dell’equilibrio del terrore, la conclusione della Guerra fredda, la rinascita delle speranze europee e mondiali. Naturalmente questo evento non fu privo di scosse di assestamento anche robuste – basti pensare alle “guerre dei Balcani” – ma fondamentalmente vi era l’aspettativa di un nuovo assetto del pianeta. E ciò si rifletteva anche nel mondo dell’informazione. Il secondo evento epocale destinato a interrompere bruscamente e inaspettatamente questo percorso fu costituito, ovviamente, dal crollo delle Torri gemelle, all’apertura del nuovo millennio, nel 2001.
Un trauma profondissimo di cui più che mai ora avvertiamo tutta la portata con la nascita dell’Isis: non più solo azioni clandestine di terrorismo devastante, ma nascita addirittura di uno “Stato islamico”, cioè di un contropotere istituzionale che vanta la pretesa di conquistare il pianeta. Basta vedere la carta geografica con la “bandiera nera” disegnata sui territori che intendono sottomettere al loro potere. Forse solo una follia, ma certamente anche una minaccia reale, capace fin d’ora di tenere in scacco i destini del mondo.
E anche quest’evento si è riflesso duramente sul sistema dei media, creando un intreccio sempre più stretto tra politiche e azioni reali e quella guerra delle immagini di cui sono straziante rappresentazione le decapitazioni degli ostaggi. Tra questi due momenti – uno di grande speranza e di pace, l’altro di tragica preoccupazione e di guerra – si colloca la nostra riflessione sul ruolo dell’informazione nell’ultimo decennio del secolo scorso, culminato nel 2000, che oggi possiamo considerare un “anno santo” non solo religiosamente, ma anche civilmente, essendo stato l’ultimo di un breve ciclo decennale destinato ad alimentare una prospettiva di convivenza e di prosperità che oggi ci sembra molto lontana.
Guardando in particolare alla situazione del sistema radiotelevisivo in Italia, vediamo che esso fu caratterizzato da tre “tappe”. La prima fu la Legge Mammì. Preceduta da un lungo dibattito, fu promulgata proprio nell’agosto 1990. Fu definita “una legge di sistema” perché aveva la pretesa di mettere ordine all’intero comparto, ma fu anche chiamata “legge fotocopia” perché confermò l’esistente attribuendo ai due maggiori soggetti, il servizio pubblico Rai e l’iniziativa privata Fininvest (che diventerà Mediaset nel 1996 con la collocazione in Borsa) uguale spazio, cioè tre frequenze analogiche nazionali ciascuna sulle dodici disponibili e fallendo nell’intento di favorire la nascita di un “terzo polo”.
La seconda tappa fu, nel 1997, la Legge Maccanico – che tentò di ridurre lo spazio dei due operatori, ma attraverso l’escamotage di rinviare l’attuazione a quando fosse stato maturo il sistema satellitare – lasciò in effetti la situazione inalterata. Ma il provvedimento più innovativo fu, in effetti, una “leggina” del 1993 che, prendendo implicitamente atto della crisi dei partiti a seguito di “Mani pulite” eliminò il farraginoso Consiglio di amministrazione della Rai composto da 16 membri lottizzati e lo sostituì con un organo snello, composto da soli cinque membri nominati dai presidenti del Senato e della Camera.
Dopo alcuni insuccessi e relative dimissioni anticipate, nel febbraio del 1998 fu insediato un Consiglio, presieduto da Roberto Zaccaria, con direttore generale Pier Luigi Celli, di cui ho fatto parte, che fu riconfermato per un biennio e finì il mandato nel 2002. Voglio riferirmi proprio a questa fase, di cui sono stato coprotagonista, per dimostrare come un’azienda pubblica possa mantenere e rafforzare il suo ruolo e nel contempo agire come un elemento attivo e stimolante nel mercato. E
così ritorno proprio all’anno 2000, dicendo che, nel più ampio contesto sopra ricordato, è stato un anno molto positivo anche per la Rai, che durante quel periodo si è data un nuovo assetto organizzativo poco avvertito all’esterno, ma di cui rimane qualche traccia importante, che merita di essere ricordata. Le parole-chiave che hanno caratterizzato quel periodo dal punto di vista della ristrutturazione aziendale sono state “divisionalizzazione” e “societarizzazione”.
La divisionalizzazione dell’azienda, iniziata progressivamente dal 1998, ha significato adottare un’organizzazione aziendale basata su un equilibrio di strutture autonome. Fu un cambiamento profondo. La sua filosofia era elementare: attribuire a ogni struttura una responsabilità di cui doveva rispondere non solo nei confronti del Consiglio di amministrazione e della Direzione generale, ma anche nei rapporti con le altre strutture aziendali. Questo automatismo dava luogo a un circuito virtuoso di autoregolamentazione, minimizzando tra l’altro l’intervento del vertice, salvi i momenti di impostazione e di verifica dei progetti, e quindi anche attenuando influenze esterne come quelle dei partiti.
L’esito positivo di questa fase, che tra l’altro portò a una rapida maturazione delle professionalità, aprì al momento successivo, quello della societarizzazione di rami di azienda. È un’eredità che dura tuttora, con la presenza di importanti consociate, come ad esempio Rai Cinema, la cui professionalità e i cui successi anche ai festival sono sotto gli occhi di tutti.