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Renzi, Lupi e i bolli del Quirinale

Ora che la vicenda governativa di Maurizio Lupi si è davvero chiusa con i bolli del Quirinale, dove i ministri guadagnano e perdono i gradi con i decreti imposti dall’articolo 92 della Costituzione, il presidente del Consiglio ha il diritto di non sentirsi più solo nell’assunzione delle responsabilità di quanto è accaduto.

Precedute dal silenzio del capo del governo, compensate però da indiscrezioni virgolettate di stampa sfavorevoli all’interessato, le dimissioni e la sostituzione interinale di Lupi al Ministero delle Infrastrutture e Trasporti hanno trovato silente anche il capo dello Stato. Che al dimissionario aveva riservato giovedì scorso, dopo la rinuncia annunciata nell’aula semideserta della Camera, solo la cortesia di una cordiale udienza di rapido commiato.

Circostanze sfortunate hanno purtroppo voluto che il presidente della Repubblica ricevesse in quei giorni al Quirinale anche i dirigenti dell’associazione nazionale dei magistrati, guidati dallo stesso presidente Rodolfo Sabelli che aveva appena accusato il governo di dare “schiaffi” alle toghe e “carezze” ai corrotti. Un’accusa che aveva giustamente provocato le reazioni stizzite del presidente del Consiglio, però condizionandone probabilmente la condotta di fronte all’esplosione mediatica e politica del caso Lupi.

Pur programmato prima della sortita antigovernativa di Sabelli, sarebbe stato forse opportuno rinviarne l’appuntamento quirinalizio di fronte alle sopraggiunte complicazioni politiche. Che si spera tuttavia abbiano indotto il presidente Mattarella a cogliere l’occasione, anche in veste di presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, per porre agli ospiti il problema dell’uso che si fa delle intercettazioni negli uffici giudiziari.

Lupi è finito nei guai appunto per le intercettazioni, nelle quali è incorso casualmente parlando con altri sottoposti a indagini sugli appalti delle grandi opere e poi raggiunti da ordini di arresto inzuppati, come al solito, d’intercettazioni depositate per dare l’idea del “contesto” dei reati, e consentire agli imputati di conoscere gli elementi raccolti dall’accusa a loro carico. Ma tutto ciò a scapito dell’onorabilità e dei legittimi interessi anche di chi, non indagato, si ritrova esposto al ludibrio mediatico.

L’urgenza di un intervento legislativo per interrompere questo diabolico circuito è avvertita in modo rovinosamente intermittente, ogni volta che esplode un caso e si alzano le proteste della parte politica che se ne sente danneggiata. Le cose intanto continuano ad andare per il loro vecchio corso, in attesa del caso e delle proteste successive.

Eppure, prima ancora di una riforma normativa, ostacolata da resistenze incrociate di magistrati e politici, si potrebbe e dovrebbe reclamare un uso più accorto e ragionevole della discrezionalità di cui dispongono le toghe nello svolgimento del loro lavoro. Una discrezionalità che deve essere regolata dal buon senso e dall’onestà, prima ancora che dalla legge.


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