Il 26 dicembre 1991 si scioglieva ufficialmente l’Unione Sovietica. Quella potenza che per mezzo secolo aveva, se non conteso il primato agli Usa, almeno impedito che questi ultimi lo detenessero incontrastati, non riusciva a raggiungere il proprio settantesimo compleanno. Il comunismo fu rapidamente abbandonato da gran parte dei suoi assertori nel mondo. Anche chi, come la Cina, continuava formalmente a rimanervi fedele, adottava rapide riforme in senso capitalistico.
Le residue barriere al movimento di merci e capitali crollavano come un domino in giro per il globo. In politica internazionale, alla logica dei blocchi contrapposti si sostituiva quella della cooperazione economica. La ragion di Stato e la sicurezza militare perdevano incidenza nella politica per far sempre più posto alla (apparentemente) impersonale, oggettiva e infallibile logica meccanica dei mercati. Dopo il crollo del Muro, l’aspettativa era che non vi sarebbero state più guerre, niente più conflitti ideologici, mai più povertà e insicurezza. Si andava verso un one world, un grande “villaggio globale” prospero e pacifico. Oggi, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 e dopo il crollo della Borsa nel 2008, sappiamo quanto quel clima da belle époque fosse illusorio e passeggero.
Per un decennio, tuttavia, informò il pensamento strategico e geopolitico. Secondo l’opinione maggioritaria, la diffusione globale della democrazia avrebbe instaurato una pace eterna. La politica estera perdeva dunque di significato nella convinzione che i rapporti economici e commerciali l’avrebbero sostituita in tutto e per tutto. La politica stessa perdeva di ragione: la perfezione dei meccanismi economici liberali garantiva già pace, sicurezza e prosperità. Compito della politica non era più esprimere democraticamente la società, bensì riformare quest’ultima, tenerla al passo del progresso economico e tecnologico, eliminare ogni barriera che avrebbe potuto frenarlo. In tale clima, Francis Fukuyama avanzò la sua controversa tesi sulla “fine della storia”.
Adottando un approccio dialettico-teleologico di stampo hegeliano, parafrasando Marx e facendosi epigono di Alexandre Kojéve, Fukuyama individuava nel liberal-capitalismo la sintesi ultima e finale della storia umana. Vi sarebbero stati ancora eventi storici, ma all’interno di un quadro statico nella sua essenza ideale, nella sua struttura socio-economica. La tesi di Fukuyama era evidentemente debole e trovò un gran numero di aspri critici. In concorrenza diretta si pose Samuel Huntington che avanzò invece la tesi dello “scontro di civiltà”: se-condo il politologo newyorkese, la fine della Guerra fredda non cancellava il conflitto ma si limitava a spostarlo di piano. Huntington non vedeva però un suo ritorno sugli abituali binari del conflitto inter-statuale (come faceva invece, pubblicando The Grand Chessboard, Zbigniew Brzezinski, il quale continuava a enfatizzare il contenimento e, se possibile, l’annichilimento dello Stato russo).
La nuova sede del conflitto era individuata nella cultu-ra. Su un punto Huntington e i neoconservatori – la corrente cui apparteneva Fukuyama – concordavano: l’ostilità verso la New left e postmodernismo. Questi due fenomeni sono strettamente intrecciati, al punto che si potrebbe interpretare la Nuova sinistra come manifestazione politica della Weltanschauung postmoderna. Entrambi originano non a caso tra gli anni 50 e 60.
L’idea centrale del postmodernismo è sottoporre a critica tutto ciò che, fino allora, era stato dato per scontato e assunto a priori nella concezione occidentale: dalle strutture sociali ai ruoli di genere, dal progresso scientifico all’idea di giustizia. Tutto nella visione postmoderna è costruzione della storia e della società; la critica dev’essere radicale, mirata a decostruire gli “a priori” del nostro pensiero, i giudizi di valore riconosciuti come relativi. I neoconservatori, così chiamati perché molti di loro in origine erano trotzkisti, ruppero coi propri compagni di sinistra principalmente sulla questione del Vietnam.
Da allora, tuttavia, questa frattura non è più pregnante: per quanto molti intellettuali postmoderni rimangano anti-imperialisti e critici della politica estera statunitense, la Nuova sinistra politica ha da tempo abbandonato simili posizioni per “istituzionalizzarsi”: non più la potenza ma i diritti umani motivano le azioni, che però rimangono molto simili tra loro. Il nodo del contendere tra le due scuole permane invece sulla concezione della società. I neoconservatori rifiutano il relativismo: per loro l’opzione liberal-capitalista rimane quella oggettivamente migliore. L’accusa che rivolgono ai postmodernisti è di mettere a repentaglio la solidità sociale e il futuro del liberalismo col loro scetticismo estremo.
I neoconservatori credono che il fine giustifichi i mezzi. E credono nel fine che si pongono. Ma credono pure che i mezzi siano più efficaci in presenza di un fine condiviso. La critica ai postmodernisti di indebolire la società ha un che di pragmatico, e questo pragmatismo è argomento dei neoconservatori anche contro i realisti. Una potenza senza ideali avrà le sue armi spuntate, perché i cit-tadini non sanno per cosa combattono. Non può dunque mancare una dimensione ideale alla politica, soprattutto a quella estera. La scuola di pensiero che più incarnò lo spirito degli anni 90 del xx secolo è però quella liberale. La sua idea di fondo è che la politica internazionale non sia un gioco a somma zero, ma che la cooperazione possa portare benefici a tutti gli attori. Il crollo dell’Urss e l’apparente clima d’armonia globale sembrava rendere possibile spingere all’estremo tale tesi, fino all’idea di un unico governo mondiale.
In tal modo, le guerre del decennio – Iraq, Jugoslavia, Timor Est, Kosovo – potevano essere inserite nella cornice liberale come momenti confermativi: i conflitti divenivano retoricamente “operazioni di polizia” messe in atto dal “gendarme” mondiale, gli Usa. Eppure, quell’unanimità globale che portò a indire una “campagna onusiana” contro l’Iraq nel 1991 ebbe vita breve. Pochi anni più tardi, l’attacco alla Serbia per strapparle il Kosovo fu effettuato dalla sola Nato, trovando la vivace opposizione della Russia. Era un assaggio di ciò che si sarebbe rivelato all’inizio del XXI secolo: ossia che la dialettica tra i gruppi umani, in particolare quelli che si è soliti definire “potenze” nella loro manifestazione statuale, non si era interrotta. La storia non era finita.