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Così l’Italia può attirare più investimenti esteri

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Le economie islamiche, secondo un report del Fondo Monetario Internazionale, crescono del 5,4% in più rispetto al resto del mondo, con un mercato interno che sale di 1,5 miliardi di dollari a causa della finanza islamica interna e con un investimento “halal” di 1,62 trilioni di dollari verso le economie degli “infedeli”. Riciclaggio, rendite petrolifere, vecchi capitali in attesa della crisi definitiva dell’Occidente per comprare al miglior prezzo.

Tutte le nazioni dell’Oic (Organization of Islamic Cooperation) che sono ben 57, fanno il 10% del pil mondiale. La Cina attira molto: ben 18mila aziende si sono inserite nel sito web “vendereaicinesi.it”, attivo dal febbraio scorso, e finora i capitali di Pechino hanno acquisito in Italia aziende per 3,43 miliardi di euro.

Non si parli nemmeno dei 321mila cittadini cinesi residenti in Italia, che sono liquidi come non mai e fanno da punto di riferimento, spesso, per le aziende cinesi che vogliono entrare nel nostro Paese. Piano con il trionfalismo: gli stranieri entrano nel mercato italiano perché, dopo decenni di tasse folli e di banche gestite “a cavolo”, le imprese sono alla canna del gas e vendono allegramente al primo che gli offra denaro vero e liquido. Pochi, maledetti e subito, come si suol dire.

La Banca di Cina ha investimenti in Italia, tra Telecom, Generali, Eni, Enel, per un totale attuale di 3.04 miliardi di euro. Gli investimenti cinesi all’estero, peraltro, sono stati quest’anno 2015 di ben 54,3 miliardi, secondo Bloomberg, con un aumento del 35% rispetto all’anno precedente e con oltre 90 aziende cinesi interessate in qualche modo alle imprese italiane. Secondo il Sole24Ore, arriviamo a un totale di ben 7 miliardi di Euro per tutte le imprese italiane quotate in Borsa, per quanto riguarda gli interessi diretti cinesi.
Si va, anche qui, dal 40% di Ansaldo Energia, di proprietà di Cassa Depositi e Prestiti, alle oltre 200 attività di proprietà cinese (escludendo i cinesi residenti in Italia) che sono ormai controllate da Pechino.
D’altra parte, o bere o affogare. L’Italia, da anni, non è più stata attrattiva per gli investimenti esteri diretti: ormai siamo a meno di 1 miliardo annuo di investimenti diretti stranieri (Fdi), e talvolta si raggiungono livelli minori.

Troppe tasse, la giustizia civile ossessiva ma assente e ritardataria, un “business climate” che è l’esatto contrario di quello che occorrerebbe. Sarebbe necessario dare una medaglia d’oro agli imprenditori che restano in Italia, e questo malgrado, lo dobbiamo notare, decenni di propaganda politica “pro-business” da parte di imprenditori prestati alla politica o di giovinastri tutti tesi alla rottamazione del “vecchio”. Figuriamoci se accadeva il contrario.

I russi non sono da meno, malgrado le pressioni geopolitiche e le ben note restrizioni commerciali internazionali: il “Russian Direct Investment Fund” ha organizzato un fondo da un miliardo di euro con il nostro Fondo strategico italiano, per non parlare degli affari russi in Fdi con il Qatar, con il Mumtalakat del Bahrein, e naturalmente la Cina, con un fondo comune da 2 miliardi di dollari con Pechino da utilizzare per il 70% in Russia. Ovvero: c’è una sovrabbondanza di capitali in giro per il mondo, e parte della geopolitica attuale consiste nella capacità di attrarli, mantenerli in loco, remunerarli in proporzioni accettabili rispetto alla concorrenza globale.

Certo, questo implica valutazioni finanziarie, strategiche in senso stretto, ovvero quali settori salvare dalla mano “straniera” e quali invece vendere per fare cassa, visto che è questo, peraltro, l’obiettivo primario. Non non crediamo, infatti, che i governi attuali, recenti e presenti, abbiano una esatta percezione della posizione dell’Italia nel mercato globale, di quali siano in suoi punti di forza, e di quali invece le aree produttive da mandare lentamente in mano straniera. Sentiamo nelle orecchie il solito refrain del “Made in Italy” della qualità, della manifattura, ed è tutto vero, ma molto del nostro “Made in Italy” è e sarà copiato da altri, moltissimo del nostro manifatturiero sarà adattato a mercati che non ci interessano più e, insomma, dati i dati più recenti, siamo sempre lì: cresciamo nell’export quando il dollaro si abbassa rispetto all’euro, e si langue con la moneta europea troppo “alta”.

Gioco vecchio e che fa pensare che avesse ragione la buonanima di Paolo Baffi, quando affermava, poco prima di morire, che l’Italia non si sarebbe salvata da un gioco diverso da quello, vecchio e un po’ cialtrone, delle svalutazioni competitive. Oggi, con questo tipo di produzioni, le svalutazioni competitive ce le fanno gli altri, ma abbassando oltre il nostro limite il costo del lavoro, abolendo il welfare, utilizzando in modo diverso la finanza “bianca” e “grigia”.

Ecco come si fa la concorrenza mondiale in fase di globalizzazione, altro che “svalutazioni competitive” monetarie, che peraltro molti, sperando in una fuga dall’euro dell’Italia, sognano in un remake di un film degli anni ’60, con Forte dei Marmi sullo sfondo e la “Capannina” di Franceschi sempre piena.
Oggi al Forte ci sono solo russi, e la “Capannina” è tutt’altro da quella che ci ricordiamo.

Ecco, quando un governo italiano ci farà passare dalla narrazione alla dura e secca verità, sarà sempre troppo tardi.
Intanto, e questo si vede poco da Roma, la Cina, con la sua Asian Infrastructure Investment Bank ha mosso Italia, Germania, Francia e, tra poco, Gran Bretagna verso il centro strategico dell’Asia Centrale, quello chiuso dai confini ovest e meridionali della Shanghai Cooperation Organization (Sco) che, dal 2001, opera come una Nato dello “Hearthland” geopolitico.

Loro dicono che è “solo” una “Ue”, ma è evidente il rilievo strategico, militare, geopolitico di questa Sco che ha garantito alla Cina la stabilità dei confini meridionali nella vigenza dell’errore strategico Usa in Afghanistan. Che Pechino sta sfruttando al meglio, sia ai confini sia nell’ambito imprenditoriale e politico.
I dati sono oggi evidenti ai Governi europei che hanno accettato: la lontananza progressiva degli Usa dopo la loro stabilizzata autonomia energetica dal Mediterraneo e dall’Europa, la sfida da parte di Washington sull’apertura ulteriore dei mercati asiatici, che saranno il vero pivot dello sviluppo futuro, la sostanziale parità strategica, perseguita dagli Usa, tra Iran e Sunniti diretti dall’Arabia Saudita, altra partita che rimarrà, caldissima come una patata bollente, nelle mani dei Paesi Ue e mediterranei.

Sarebbe bene, quindi, che la Nato del Sud pensasse ad una struttura di pronto intervento politico e militare in quelle aree, per evitare che l’Ue meridionale divenga lo scarico di tutte le tensioni che vanno dallo Shatt-El-Arab al Sinai fino alle coste libanesi, mentre la Russia aspetta un “big deal” con l’Ue per entrare nel quadrante del jihadismo per renderlo, insieme alla Cina e ai suoi capitali, progressivamente irrilevante.
Senza l’aiuto dei nostri amici dell’Est non ce la faremo mai, con le tensioni politiche, migratorie, energetiche e strategiche che sono state innescate dalla territorializzazione del jihad qaedista con il “Califfato” di Al Baghdadi.

Ecco: occorre una geopolitica per la gestione di uno hub di investimenti globali come sta diventando l’Italia.
Un accordo con la Cina potrebbe prevedere, e stiamo parlando di serissime questioni militari, il controllo delle zone di sicurezza tra il Golfo Persico e Aden, che ancora oggi, come ai tempi di Paul Nizan, “brucia”.
E con la Russia, a parte la questione dell’Ucraina e, oggi, della Ossezia del Sud, si dovrebbe trattare di una zona di controllo comune tra il Mediterraneo Orientale e il Mar Nero che è da sempre nostro polo di interesse per la sicurezza.

Noi dobbiamo mettere in sicurezza le linee che ci conducono ai nostri partner geoeconomici, e che ci creano una cintura di protezione rispetto ad un Maghreb che è sempre più in ebollizione.
Si può pensare, anche per rafforzare il nostro storico legame con il Maghreb civile, liberale e laico, ad una “Azione per l’Africa Settentrionale” con Algeria, Marocco, Tunisia e Egitto, oltre che a Spagna, Italia e Francia, per tamponare, insieme a quei governi, i drammi dell’emigrazione forzata e dello spopolamento africano, che sarà grave laggiù ancor più di quanto non sia stato disastroso in Europa.

Altro che “aumenti del PIL mondiale”, come raccontano tanti pseudoeconomisti, se si liberalizza l’immigrazione. Creeremo invece delle immense metropoli globali, diseconomiche, criminali e instabili.
Occorrerà, quindi, immaginare, con la fantasia della ragione, i nuovi scenari strategici dell’Italia come punto di arrivo di vari capitali internazionali e di tante tensioni geopolitiche contrastanti, per evitare che, nelle more di una classe politica disattenta, si arrivi ad un frazionamento definitivo del nostro Paese, che non è negli interessi di nessuno.

Giancarlo Elia Valori è professore di Economia e Politica Internazionale presso la Peking University e presidente de “La Centrale Finanziaria Generale Spa”

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