Fra i vantaggi dei giovani, o dei giovanissimi, come quelli, per esempio, che hanno ancora meno anni del presidente del Consiglio, c’è l’impossibilità di rivivere un passato che, per quanto recente, non hanno fatto in tempo a vedere. E che possono solo sentire raccontare dagli anziani o dai meno giovani, con gli inevitabili limiti di ogni testimonianza diretta, necessariamente non storica ma condizionata da sentimenti, simpatie, antipatie, umori e quant’altro. Come sicuramente accade a me nel momento in cui Matteo Renzi e Silvio Berlusconi mi sembrano entrambi sovrastati politicamente e persino umanamente dallo stesso fantasma: quello di Bettino Craxi. Altro che Amintore Fanfani, Giorgio La Pira e persino il Giulio Andreotti dei “due forni”, cui l’ex sindaco di Firenze, proveniente per famiglia dalla Dc, è stato di volta in volta paragonato, secondo le circostanze.
Il Renzi baldanzosamente in sella al governo, sprizzante ottimismo anche a dispetto delle statistiche e insofferente alle critiche, generalmente attribuite al “gufismo” e disfattismo di che le formula, infine convinto di cavalcare un’onda lunga di consenso personale, superiore a quella del proprio partito, mi ricorda il Craxi dei tempi d’oro. Quello di Palazzo Chigi, ma anche degli anni immediatamente precedenti e successivi, che ad ogni brutta notizia giudiziaria proveniente dalla periferia del Psi reagiva più con fastidio che con preoccupazione o allarme, scambiando magari per zanzare quelli che invece erano tarli destinati a polverizzare parti strutturali del mobile.
Mi colpì il modo in cui una volta Bettino mi spiegò amichevolmente la ragione per la quale non se la sentiva di deporre con le buone o le cattive un dirigente nazionale del partito che aveva coperto o tollerato alcune porcherie emerse nel proprio collegio elettorale. Mi disse che la tolleranza era il prezzo dovuto alla libertà lasciatagli dalla periferia non di cambiare, ma di rovesciare la linea politica, praticamente schiacciata sui comunisti, che egli aveva ereditato nel 1976 da Francesco De Martino. “Ma verrà il tempo – aggiunse – che metterò mano anche su questo”. Quel tempo purtroppo gli mancò. O lui non ebbe l’avvedutezza di trovarlo, come mi parve ch’egli stesso riconoscesse quando mi disse, nella sua casa tunisina, di avere ad un certo punto “sottovalutato” e perso “il controllo” di ciò che gli accadeva intorno nel suo stesso partito e fuori. Cosa che poi ribadì in una celebre intervista televisiva.
Il Craxi onestamente autocritico, e non solo critico dei magistrati per gli eccessi strumentali e/o strumentalizzati dei loro interventi, provò sulla propria pelle, ancor prima di lasciare l’Italia, il fenomeno degli abbandoni e dei tradimenti che ne precedettero, accompagnarono e seguirono il declino. E’ un fenomeno che probabilmente sperimenterà anche Renzi quando si compirà inevitabilmente la sua parabola, ma che Berlusconi sta già vivendo in quel nido di vipere che sembra spesso diventata la sua Forza Italia. Di cui Renato Brunetta, capogruppo alla Camera, insospettabile per la sua pugnace fedeltà all’ex presidente del Consiglio, ha parlato a Pasqua, in una intervista al Quotidiano Nazionale, come di “un partito monarchico e anarchico”, dove “finché si vinceva, eravamo tutti fratelli, tutto veniva assorbito dai seggi sovrabbondanti, dalle risorse pubbliche e private di Silvio”.
Adesso invece Berlusconi, come il Craxi dei tempi non più d’oro colpito dai calci degli asini, ha dovuto apprendere dalle agenzie la defezione persino della coppia parlamentare e familiare costituita da Sandro Bondi e Manuela Repetti. E deve aspettare come un momento di liberazione, nonostante lo abbia appena accontentato nella controversa formazione delle liste, quello della definitiva rottura con Raffaele Fitto, che non più tardi di cinque anni fa egli volle graziare, respingendone le dimissioni da ministro e da responsabile regionale del partito, dopo la débacle provocata in Puglia dal rifiuto della candidatura di Adriana Poli Bortone a governatrice: l’unica che avrebbe potuto evitare, numeri alla mano, la conferma di Nichi Vendola.
Ora in Forza Italia è “conflitto cambogiano” tra “gattoni spelacchiati”, racconta un irridente Salvatore Merlo ai lettori delusi del Foglio.