Questo articolo è stato pubblicato come editoriale oggi sul quotidiano La Sicilia
«Per tu, per tu, per tu, per me, per voi… Il suo amore, l’amore di Cristo, è così: personale»: queste parole papa Francesco, nella manciata di minuti dedicati all’omelia – come sempre maccheronica, ma diretta – ha rivolto ai carcerati di Rebibbia, giovedì scorso, celebrando con loro la messa in ricordo dell’ultima cena del Signore. L’annuncio cristiano, sin dagli inizi, è stato e rimane tutt’ora condensato in questo vangelo dell’amore. E l’editoriale firmato ieri su Avvenire da uno di quei carcerati, il siciliano Totò Cuffaro, di questo messaggio fondamentale è una sorta di eco, che dal carcere romano ridonda tutt’attorno, sino a noi, prolungandosi in cerchi concentrici. Nel pezzo scritto dall’ex Presidente della Regione Sicilia possiamo intercettare l’increspatura di almeno tre di quei cerchi ondosi.
Innanzitutto la denuncia della spersonalizzazione in cui l’esperienza carceraria rischia di degenerare: Cuffaro, infatti, parla – con toni severi – della «disumanità» del carcere, luogo deputato quasi «per legge», per suo specifico «mandato», a «mortificare e far sparire l’“io” dei detenuti». Se l’amore è un fatto relazionale, se è per sua natura “personale”, dove non c’è amore – di conseguenza – si scivola nella negazione delle persone e della loro personalità. Potrebbe suonare come presuntuosamente retorico un discorso del genere e qualcuno, abituato a mandare a quel paese tutto e tutti, potrebbe ironicamente avanzare il sospetto che si voglia così auspicare la ristrutturazione del carcere in albergo a cinque stelle. In realtà si vuole soltanto sottolineare che creare luoghi come le carceri, rinchiudervi dentro uomini e donne che hanno commesso dei reati o qualche altro tipo di errore, non può equivalere a dimenticare la loro umanità, con il rispetto che le si deve mantenere, con la speranza che le si deve garantire, con il futuro che le si deve riguadagnare. A chi ha sbagliato la legge giustamente sospende alcuni diritti, ma non nega in assoluto ogni diritto e men che meno toglie l’inalienabile dignità dell’essere-umano. L’attuale sistema carcerario italiano in questa prospettiva ha fatto molti passi in avanti rispetto al passato: se un detenuto può laurearsi mentre sconta la sua pena, se può sposarsi, se può – a certe condizioni – esercitare un lavoro, vuol dire che l’attenzione verso la dimensione “personale” non manca. Ma il sovraffollamento degli ambienti e la promiscuità che ne deriva, la fatiscenza e l’insicurezza delle strutture, la sommarietà dei protocolli, la lentezza dei processi, l’abuso di alcune cosiddette “misure cautelari” e altro ancora si traducono quotidianamente in offesa, in violenza psicologica, in umiliazione, in motivo di sofferenza.
Per dare una risposta efficacemente positiva a questo rischio di «disumanizzazione», lo stesso Cuffaro chiama in causa due dimensioni parimenti e inscindibilmente costitutive della persona umana: l’intelligenza e il cuore. Siamo alla seconda increspatura. Si capisce, leggendo le sue parole, che si svolge nell’orizzonte di questa polarità la ginnastica interiore che permette ai detenuti di restare se stessi, di rimanere umani. «Mente e cuore sempre bene insieme stanno», ha scritto Albert Camus nel suo romanzo postumo, significativamente intitolato Il primo uomo. L’attitudine razionale e l’esercizio dell’intelletto, non disgiunti dalla disponibilità ad amare, porta al discernimento delle emozioni e dei sentimenti: è ciò che ci fa oltrepassare il livello degli istinti, ciò che ci umanizza, proiettandoci nella relazione con gli altri. Vale anche per chi si occupa – a qualsiasi titolo – dei detenuti e dell’organizzazione della loro pena: preoccuparsi pure delle loro pene non può che essere un guadagno umano.
La terza increspatura, che trasmette l’eco del vangelo dell’amore, nell’editoriale apparso ieri su Avvenire, è l’incontro: con il pontefice, certamente, ma anche e soprattutto, tramite le sue parole e i suoi gesti, con Cristo. «Abbiamo sentito, inconfondibile, la Sua voce», scrive Cuffaro. Viene da pensare a ciò che il Crocifisso del Golgota sussurrava al “ladrone” inchiodato sul palo accanto a lui: «Oggi sei con me in Paradiso». Lungi dall’essere un improbabile luogo al di là delle nuvole, il Paradiso consiste – secondo quella promessa – nello stare in rapporto con Cristo stesso, non chissà in quale Eden ritrovato, bensì sul crinale della morte, nella più vergognosa sofferenza.
Fatta salva la relazione, c’è il recupero, il riscatto, la redenzione. Lo sguardo pensoso dei detenuti, il sorriso delle detenute, il pianto dei loro bambini registrato nelle riprese della messa dello scorso due aprile, testimoniano che il «grido» di cui scrive Cuffaro, quello che silenzioso vibra nella «carne» di quelle donne e di quegli uomini, è proprio il grido di quell’antico loro compagno, il primo – nella loro comune condizione – a «riconoscere» Cristo presente, il primo a sottrarlo all’inevidenza cui si rassegnano invece coloro che continuano a dire: «Quando mai ti abbiamo visto, Signore?».