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Perché l’Armenia sarà il ponte tra Europa e Russia. Parla l’ambasciatore Ghazaryan

Il prossimo 24 aprile ricorrono i cent’anni del genocidio armeno per mano dell’Impero Ottomano. E la Repubblica di Erevan è pronta a commemorarlo, inorgoglita dalle recenti dichiarazioni di Papa Francesco. Due domeniche fa, Bergoglio aveva pronunciato per la prima volta in un discorso pontificio la parola “genocidio” – sempre rifiutato dalla Turchia – scatenando le ire del presidente Erdogan.

Ecco le ultime vicende e la prossima commemorazione analizzate in una conversazione di Formiche.net con Sargis Ghazaryan, ambasciatore d’Armenia in Italia.

Dopo le parole interlocutorie del sottosegretario Sandro Gozi, pochi giorni fa, a Washington, il premier Matteo Renzi si è espresso in modo chiaro sulla tensione in corso fra il Vaticano ed Ankara. Qual è la sua lettura?

Ci rallegria l’approccio valoriale emerso dalle parole pronunciate dal premier a Washington in difesa delle parole del Pontefice, dei valori europei, nonché nella valutazione oggettiva della postura, certo non costruttiva, di Ankara. Inoltre, la storia dell’integrazione europea ci detta la regola aurea per cui la riconciliazione fra le grandi nazioni europee non poteva prescindere ieri, come non può farlo domani, nel caso turco, la presa di coscienza della verità storica e la normalizzazione dei rapporti della Turchia con l’Armenia. Lo diceva pochi giorni fa l’Alto rappresentante Federica Mogherini, l’hanno detto all’unisono tutte le famiglie politiche europee il 15 aprile scorso con il loro voto al Parlamento europeo.

Crede invece che la prudenza italiana possa derivare da altri rapporti economici, come quelli con l’Azerbaijan per il gasdotto Tap?

Il genocidio armeno è un crimine universale, erga omnes, quindi non credo in una tale ipotesi. E’ chiaro che l’Italia sia interessata agli idrocarburi nel Mar Caspio, tuttavia, nella sostenibilità del progetto vi è una coincidenza d’intenti con l’Armenia. Per noi sono vitali la pace, la sicurezza e la stabilità in Caucaso. Per l’Italia è fondamentale la stessa condizione per accrescere la propria sicurezza energetica. Nei giorni del genocidio armeno, alcuni statisti italiani come Luigi Luzzati, Filippo Meda o Antonio Gramsci, fecero una scelta: non tacere e denunciare. C’era allora, sono certo, la consapevolezza per cui i governi che esitano a giudicare i genocidi, la storia, saranno giudicati dalla storia. Ecco perché il prossimo 24 aprile, sul palcoscenico globale per la prevenzione dei genocidi che sarà il Memoriale del genocidio armeno di Erevan, l’Italia avrà un posto d’onore. Sono sicuro che l’Italia sarà all’altezza della sua Storia.

Qual è lo stato delle relazioni con l’Italia?

Le relazioni tra Armenia e Italia hanno duemila anni di storia e sono fatte di vittorie e sconfitte condivise e di solidarietà, certamente di continui intrecci culturali e antropologici. E’ anche su questi rapporti millenari che io e i miei colleghi italiani stiamo capitalizzando nell’avanzamento dei rapporti bilaterali fra i due Stati.
Il nostro bilaterale è fatto di condivisione valoriale e di coincidenza di interessi su molti temi cruciali.
Da pochi mesi il mio Paese è al fianco dell’Italia nella missione Unifil in Libano, e il nostro contingente sarà ampliato nei prossimi mesi.
La cooperazione nel campo della cultura, ricerca e istruzione è un altro settore di cui andiamo fieri.

Come sono, invece, i legami economici?

Dal punto di vista economico, nonostante gli ultimi quattro anni siano stati caratterizzati globalmente da una recessione che non stenta ancora a flettere, il nostro bilaterale economico-commerciale è cresciuto del 93%. Nella bilancia dei pagamenti è ancora favorevole all’Italia. Nello stesso periodo una sessantina di società con capitale italiano sono state create in Armenia. Poi, c’è la nostra adesione, da un lato all’Unione economica eurasiatica, e dall’altra al sistema valoriale e al corpus normativo europeo, fonte di riforme in Armenia, che fra pochi mesi prenderà forma di un accordo di cooperazione e partenariato rafforzato con l’Ue. Questa circostanza sta facendo emergere l’Armenia come l’eccezione nello spazio ex Urss che trasforma i contrasti in sinergie. Certamente, si tratta di buone notizie per l’impresa italiana nel suo accesso, insieme all’impresa armena, a quel mercato di 170 milioni di consumatori dell’Unione Eurasiatica.

Facendo un passo indietro, come sono state accolte le parole del Papa che hanno irritato la Turchia?

Le parole del Papa sono state sorprendenti. E’ stato un messaggio chiaro di solidarietà, riconoscimento e riaffermazione di una verità storica, quella del genocidio armeno. Inoltre, erano tese alla prevenzione dei genocidi. E contenevano infine un messaggio di riconciliazione. L’insieme di questi tre messaggi dovrebbe bastare a evitare che le sue parole possano essere strumentalizzate. Il vigore delle sue dichiarazioni sta nella loro attualità. Cent’anni dopo il genocidio armeno, i genocidi non sono ancora storia, ma politica. E’ la politica che deve dare risposta a quella “guerra a blocchi” che il Papa ha denunciato.

Cosa intende?

L’Armenia sta ampiamente facendo la sua parte con la missione Unifil in Libano e con la netta denuncia dei massacri delle minoranze etniche, religiose e linguistiche in Medio Oriente e Maghreb per mano dell’Isis e dei suoi sostenitori.
Per ciò che concerne le reazioni turche e la posizione del governo Erdogan, sempre più isolata, c’è un termine di scacchi che meglio può descriverle: lo zugzwang. E’ quella situazione in cui qualsiasi passo successivo deteriora la posizione del giocatore. La Turchia, di tutta risposta all’appello del Parlamento Europeo a fare i conti con la storia, ha minacciato nuove deportazioni degli armeni.

Perché c’è ancora difficoltà – non solo in Turchia – nel riconoscere il genocidio armeno?

Vorrei ribadire che il genocidio armeno non è una questione storica, è un fatto storico indiscutibile, che finché non riconosciuto da Ankara ufficiale, produrrà conseguenze politiche.
Il genocidio armeno venne riconosciuto e condannato per la prima volta nel giugno 1915. Poche settimane dopo il suo inizio, ci fu una dichiarazione congiunta degli alleati dell’Intesa che usano per la prima volta il termine “crimine contro l’umanità” per ritenere responsabile il governo dei Giovani Turchi di quell’uccisione di massa che era in atto nell’Impero ottomano. Nel 1919 ci fu una sentenza della Corte marziale ottomana che condannò, purtroppo in contumacia, gli autori del genocidio armeno. Quindi, in tempi non sospetti, ci fu un riconoscimento legale di ciò che accadde.

Quando si sono complicate le cose?

Poi nel 1944 Raphael Lemkin coniò il termine “genocidio”, e in quella definizione era centrale il caso armeno. Il percorso continua nel ’86 con le Nazioni Unite, ’87 col Parlamento europeo e poi Paesi diversi in tempi diversi: tutti accomunati dal riconoscimento di questo genocidio. L’Italia, con un voto unanime della Camera dei deputati riconobbe il genocidio armeno nel 2000. Le cose si sono invece complicate con Erdogan che prima come primo ministro e poi come presidente non ha rimosso la Turchia dalla nave naufragante dei negazionismi, contrariamente agli atti di verità, libertà e audacia della società civile del suo Paese.

Crede che il popolo turco sarebbe pronto a un riconoscimento delle responsabilità storiche del proprio Paese?

Nel 2008, su iniziativa armena, subito dopo le presidenziali, lanciammo un processo di normalizzazione dei rapporti con la Turchia, allora senza precondizioni. Era un atto di visione politica coraggiosa. Per la prima volta a Erevan venne invitato l’allora presidente Gul e venne lanciato un negoziato supportato da Usa, Ue e Federazione russa e coadiuvato dalla Federazione elvetica: un allineamento che di rado si verifica. Dopo due anni si stesero due protocolli, sulla normalizzazione dei rapporti bilaterali, inclusa l’apertura da parte turca del confine con l’Armenia e sull’istituzione di rapporti diplomatici, firmati il 10 novembre 2009.

Poi cosa accadde?

Subito dopo la firma Usa, Ue e Federazione russa richiesero alle due parti di ratificare in tempi ragionevoli e senza ulteriori condizioni i documenti. Il giorno dopo Erdogan, allora primo ministro, si oppose alla ratifica, causando uno stallo politico-diplomatico. La firma armena giace ancora su quei protocolli. Ma quei due anni di negoziati aprirono anche un processo virtuoso nella società civile. La società civile armena scoprì che la società civile turca condivideva esattamente le stesse richieste verso Ankara: chiedeva al governo turco di liberarsi dal fardello della Storia facendoci i conti. D’altronde l’hanno fatto le grandi nazioni europee che con un processo simile, iniziarono il percorso dell’Integrazione europea.

Cosa dovrebbe fare Ankara?

Sta al governo turco dimostrare il coraggio e la maturità necessarie.
Non senza orgoglio che l’Armenia da anni è rapporteur al Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu sull’implementazione della Convenzione per la prevenzione e la repressione dei genocidi e dei crimini contro l’umanità. Noi facciamo la nostra parte anche con il supporto formale italiano.
La settimana scorsa l’opinione pubblica italiana era concorde con noi, che il genocidio armeno non è una “questione storica”, ma un fatto storico comprovato che finché negato produce effetti politici.

Come ha ricordato, Il suo Paese intrattiene rapporti sia con l’Ue sia con la Federazione russa. Non è forse una scommessa in un momento così delicato per le relazioni del Vecchio continente col Paese guidato da Putin?

L’Armenia è identitariamente europea. Già dai primi giorni dell’indipendenza chiamava il rapporto con le istituzioni europee come una “via di ritorno a casa”, non per una finzione politica, ma perché tale è la nostra storia. Allo stesso tempo abbiamo scelto di aderire all’Unione euroasiatica, un’iniziativa d’integrazione regionale lanciata dalla Russia. C’è una ratio. Mentre il nostro partner primario per le importazioni è l’Unione europea – e l’Italia è il nostro secondo partner, dopo la Germania -, la destinazione principale delle nostre esportazioni è il mercato dell’Unione eurasiatica. L’Armenia, ribadisco, un’eccezione che punta a trasformare contrasti in sinergie. La stessa dottrina della politica estera armena si basa sulla multivettorialità: diciamo apertamente di non voler capitalizzare sulle divisioni, ma costituire un elemento di dialogo.

Qual è il messaggio delle commemorazioni a Erevan il prossimo 24 aprile per gli armeni?

Intanto, per la mia generazione, la risposta più eclatante al genocidio armeno è la Repubblica d’Armenia, la sua nascita e il suo progresso.
Secondo il premio Nobel Eli Wiesel, sopravvissuto ad Auschwitz, l’ultimo atto di un genocidio è la sua negazione. Un crimine deliberatamente programmato, implementato con successo, negato e poi dimenticato diventa un crimine perfetto, quindi replicabile. Nel 1939, pochi giorni prima l’invasione della Polonia, Hitler radunò a Obersalzberg lo Stato maggiore dell’esercito nazista. Mentre li esaltava a non fermarsi davanti a nulla, ad essere spietati e celeri nell’uccidere, concludeva il suo discorso facendosi una domanda: Chi, dopotutto, si ricorda ancora dell’annientamento degli armeni. La negazione del genocidio armeno è stato il precursore dei mali del ‘900. Noi il 24 aprile vorremmo concludere questo circolo vizioso dei genocidi. A Erevan, al Memoriale del genocidio armeno, saremo insieme a più di 40 delegazioni ufficiali di capi di stato e di governo da tutto il mondo per rispondere a quella domanda di Hitler, a dire “Mai più!” e a impegnarci proattivamente per la prevenzione dei genocidi.

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