Ieri il Consiglio europeo straordinario sull’immigrazione, richiesto dall’Italia dopo il naufragio di migranti nel Canale di Sicilia, ha deciso nuovi provvedimenti per arginare il fenomeno. Tra questi, l’aumento delle risorse dell’operazione Triton per il pattugliamento in mare al largo delle coste italiane e maltesi, portato a 120 milioni di euro l’anno.
Che misure sono quelle varate da Bruxelles? Che effetti avranno? E che fine ha fatto l’ipotesi, discussa, di utilizzare droni per colpire e affondare nei porti libici le carrette degli scafisti?
Ecco alcuni degli aspetti analizzati in una conversazione di Formiche.net con il generale Leonardo Tricarico, già capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, oggi presidente della Fondazione Icsa.
Generale, come valuta i risultati del summit sull’immigrazione a Bruxelles?
Si tratta di un grande successo e al tempo stesso di un grosso impegno che, come tale, comporta qualche rischio.
Quali sono i lati positivi?
Finalmente non abbiamo di fronte la solita Europa senza identità, brava più a imporre norme capestro e meno a condividere aspetti di di difesa e sicurezza. L’Alto rappresentante Federica Mogherini ha avuto il compito di elaborare un piano per governare le criticità di fronte alle nostre coste. Si tratta di un disegno complesso che contempla ogni aspetto: la componente militare, la lotta alla criminalità e al terrorismo, aspetti umanitari. È una sfida, forse la prima vera in questo frangente. E l’Italia può avere un ruolo importante o addirittura di guida, in alcuni settori.
Per ora ci sono più risorse economiche, con il bilancio di Triton triplicato, e anche la possibilità di assolvere a compiti di ricerca e salvataggio.
L’aumento di soldi lo considero un pannicello caldo, perché di fatto non risolve il problema in modo strutturale. Non è ancora possibile addentrarsi in acque internazionali, vedremo se la Mogherini riuscirà a far compiere all’Europa qualche passo in avanti in questo senso.
E i rischi?
Vanno dalla semplice spesa improduttiva dei fondi messi a disposizione, fino al fallimento. Un’ipotesi da scongiurare, perché – oltre a costituire un pericolo – renderebbe più arduo discutere nuove iniziative.
Non si è parlato di droni per colpire e affondare i barconi prima della partenza, come chiedeva lei. L’editorialista del Corriere della Sera Antonio Polito ha scritto su Twitter che dopo la tragedia di Giovanni Lo Porto questi piani sono definitivamente finiti nel cassetto.
Ovviamente alla famiglia del cooperante va il mio cordoglio. Non è questo il caso, ma spesso si parla di ciò che non si conosce. L’Aeronautica militare italiana ha un’esperienza ormai ultradecennale nell’uso di questo strumento e saprebbe trovare benissimo soluzioni adeguate. Va però detto che qualsiasi soluzione si scelga di adottare – compresi i droni – questa deve essere richiesta dalla politica, che ancora non si è espressa.
Entriamo nel dettaglio delle singole perplessità. Sulla stampa si è detto che il rischio di danni collaterali comportato da aeromobili a pilotaggio remoto sarebbe troppo alto.
L’incidente è sempre possibile, ma raro. So che la cronaca recente indurrebbe a pensare il contrario, ma ormai viaggiamo su cifre bassissime. Nel 2003 Israele, che più d’ogni altro aveva questo problema, s’impegnò a fondo per risolverlo e passò in poco tempo da un rapporto di 1:1 tra terroristi e vittime innocenti uccisi in un attacco, a uno di 24:1. Questi numeri sono ancora migliorati. Se poi consideriamo che per affondare quei barconi non ci sarebbe nemmeno bisogno di esplosivo, ma di semplici bombe inerti, il pericolo si ridurrebbe ancor di più.
Ma il governo – anzi, i governi – della Libia autorizzerebbe una soluzione simile?
L’importante è porre bene la questione. Dopo la caduta di Muammar Gheddafi, conducevamo già operazioni simili con l’Aeronautica libica. Oggi la situazione è più complessa, ma basterebbe avvicinare le parti libiche e dire loro che non abbiamo voglia di decidere il loro futuro, che non ci saranno ingerenze da parte nostra, ma che è necessaria un’operazione congiunta. Farebbero un favore anche a loro stessi. Criminali e terroristi sguazzano nel caos. Non sarebbe troppo pretendere, quale dividendo per il contributo decisivo dato alla liberazione della Libia dal Rais, di avviare su una piccola porzione del territorio libico una serrata lotta alla criminalità e forse anche al jihadismo.
Resta sempre il problema numero uno: i nostri Reaper non sono armati.
Sono convinto che, in attesa di negoziare gli ultimi dettagli con gli Usa per dotare anche i nostri droni di queste caratteristiche, Washington non avrebbe problemi a prestarci i suoi davanti a una richiesta seria e ufficiale. Sono cortesie consuete tra alleati e non vedo perché dovrebbe essere negata a un amico come l’Italia.