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Relazioni industriali, quale nuovo modello?

Dallo scempio che il governo del giovane caudillo sta facendo della Carta costituzionale (un tempo definita pomposamente la ‘’più bella del mondo’’ da chi ora se ne sta in un assordante silenzio) sarà risparmiata la prima parte, in nome di una discutibile convinzione condivisa secondo la quale le norme che vi sono contenute siano intoccabili. Invece, ad avviso di chi scrive, taluni articoli contenuti nel Titolo III, dedicato ai Rapporti economici, meriterebbero almeno una rivisitazione.

A partire – in una fase storica in cui ci si interroga sulle questioni della rappresentanza e della rappresentatività sindacale – dall’art. 39 Cost. rimasto inapplicato dal 1948 ad oggi, ma divenuto una sorta di ‘’convitato di pietra’’ attento ad impedire qualunque regolamentazione non uniforme al percorso da esso indicato ad un legislatore ordinario latitante. Sono molti e diversi i motivi – storici, politici, sindacali – che hanno impedito l’attuazione di quella norma che, in sé, costituiva un piccolo capolavoro giuridico in quanto risolveva tutti i problemi che assillano la ‘’questione sindacale’’ (le regole della rappresentanza e della rappresentatività, le modalità dell’applicazione erga omnes della contrattazione collettiva di diritto comune).

In questo lungo frangente, il sistema delle relazioni industriali ha imboccato altre strade che, da grandi arterie di facile scorrimento, si sono trasformate, talvolta, in viottoli difficilmente percorribili, tanto da riaprire un ‘’caso’’ che si riteneva altrimenti risolto nel ‘’diritto vivente’’, nonostante che l’art. 39 rimanesse sulla Carta. A questo punto, però, la domanda è: di fronte all’attuale crisi della rappresentanza si deve tornare al ‘’vintage’’ della norma costituzionale oppure è più opportuno e conveniente aggiustare e rivisitare l’itinerario percorso dalle parti sociali dal dopoguerra ad oggi?

Ambedue le opzioni sono aperte nel dibattito: la prima ci conduce alla legge sulla rappresentanza (che per la sua natura non potrebbe discostarsi più di tanto dall’impianto dell’art.39, pena la sanzione di incostituzionalità); la seconda ci porta all’implementazione degli accordi interconfederali che hanno regolato la materia nel contesto di un quadro giurisprudenziale e legislativo che ha conosciuto innovazioni di rilievo. Ma prima ancora di tali aspetti, si pone un altro e più delicato problema: come far evolvere, senza strappi, verso un modello di contrattazione ‘’di prossimità’’, un sistema di relazioni industriali fino ad ora imperniato sul contratto nazionale di categoria (che è poi l’eredità del regime corporativo e che continua a svolgere un ruolo all’interno di un appartato produttivo e dei servizi in cui sono predominanti le PMI)?

La strada della regolazione legislativa appare, dunque, rischiosa da tanti punti di vista. Chi volesse approfondire il problema può  trovare validi argomenti in un interessante saggio dal titolo ‘’Da Torino a Roma attacco al sindacato’’ (Guerini ed Associati editori), dove l’autore, Giuseppe Sabella, traccia un quadro desolante delle cosiddette parti sociali e della loro rappresentatività.  ‘’Stanno infatti perdendo sempre più tessere e associati – scrive – sia sul versante lavoro (il 40% di iscritti al sindacato sono pensionati, mentre solo il 10% sono giovani, ndr) che sul versante imprese (dopo Ibm, Ansaldo e Fincantieri anche UnipolSai e Impregilo in tempi più recenti)’’.

Lo stesso Sabella, pur non ritenendo possibile, nella struttura produttiva italiana, superare il contratto collettivo nazionale di categoria, riconosce che ‘’la tendenza delle Confederazioni ad ’accentrare’ la contrattazione ….. va in controtendenza rispetto all’obiettivo di favorire la competitività delle imprese del sistema e, in particolare, un legame tra costi e risultati, salari e produttività’’. La via da seguire non può essere che quella di riconoscere ed utilizzare l’’uscita di sicurezza’ di un potere derogatorio di cui siano titolari le parti sociali comparativamente più rappresentative.

Arriviamo così – di nuovo con l’aiuto del saggio citato, del quale consigliamo la lettura anche al ministro Giuliano Poletti – ai capisaldi della rigenerazione di un sistema di relazioni industriali, tale da valorizzare e proseguire l’esperienza che lo ha connotato dal 1948 ad oggi, al riparo dall’attuazione dell’articolo 39: in primo luogo l’articolo 19 della legge n. 300 del 1970 come reinterpretato, dopo le  vicissitudini Fiat/Fiom, dalla sentenza Cost. n.231 del 2013 che ha dettato i criteri basilari per il riconoscimento della ‘’maggiore rappresentatività’’ alla luce degli effetti del referendum del 1995; in secondo luogo, l’articolo 8 del decreto legge n. 138 del 2011 che ha stabilito le condizioni e i limiti entro cui un accordo aziendale può derogare (anche in pejus) alla disciplina legislativa dei rapporti di lavoro.

Infine, il Testo unico sulla rappresentanza che dà seguito al protocollo d’intesa sulla rappresentatività e chiude (o almeno potrebbe farlo) le questioni attinenti ai processi di decisione e di applicazione dei contratti e degli accordi.

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