Vogliamo una nuova regolamentazione, più stringente, più certa. Lo dicono le principali banche europee. Vogliamo poter avere gli strumenti per limitare i rischi del sistema perché “il sistema è il nostro rischio più grande. Essere la banca migliore in un sistema in fallimento è un pò come occupare la suite presidenziale a bordo del Titanic”, sono le parole dell’amministratore delegato di una delle grandi banche che hanno fatto predisporre un documento dal Davos World Economic Forum con l’esplicita richiesta: “imponeteci più regole”.
Chiedere una migliore regolamentazione per il proprio settore o per l’ecosistema economico in cui opera la propria azienda non è di per sè una novità. Anzi è una prassi consolidata ed è una delle attività più “classiche” svolte dalle associazioni di categoria, dai think tank e dalle società di relazioni istituzionali. Niente di nuovo allora. Però qualcosa di “innovativo” in questa vicenda esiste: il messaggio, chi lo manda, come viene mandato.
Innanzitutto il messaggio: il settore chiede regole più stringenti per se stesso perché vede nel sistema in cui opera una serie di rischi. Di solito il rischio è basato sul livello di pressione regolatoria che impedisce al business di essere “libero”, ma in questo caso il rischio risiede nell’opposto: nell’apparente assenza di pressione. Troppa libertà nel sistema uguale troppi rischi. Un messaggio che è una “visione”. Giusta o sbagliata che sia.
In secondo luogo colui che questo messaggio lo invia: un gruppo di banche apparentemente a “titolo personale” e non intermediate da associazioni di categoria. Disintermediare la rappresentanza. Accorciare la linea che dal mondo delle imprese arriva a quello delle istituzioni forse nella convinzione, già di Panebianco, che i corpi intermedi alla fine perseguono i loro di interessi e non quelli dei loro soci. Perseguono, allora inevitabilmente, la loro visione. Sbagliando.
Infine le modalità: un documento, redatto da un influente think tank, tenuto momentaneamente nascosto ma svelato come fosse un tesoro scoperto per caso. Quasi per far clamore, quasi per far notizia. Un documento, da quanto si apprende, che contiene richieste di intervento pratiche (ma non con misure specifiche) e concetti “facili”, spendibili sui media.
Una splendida operazione di lobbying insomma, il giusto messaggio, la credibilità di chi lo propone, le modalità “sexy” con cui viene fatto. Certo si può obiettare che le banche difendono se stesse dalla turbofinanza (che per l’appunto è “libera”, agile, veloce e che quindi li sta mettendo in forte difficoltà competitve), che lo fanno le grandi banche per difendere la loro leadership, che lo fanno di nascosto (o quasi) in barba alla trasparenza. Tutto vero, ma poco importa. Non è questo il punto. La nostra non è analisi sul merito.
Alcune riflessioni. La prima: l’interlocuzione privato-pubblico deve avere come imprescindibile cornice di confronto la salvaguardia del sistema. Per questo chi regola deve avere l’umiltà di ascoltare chi viene regolato e quest’ultimo l’intelligenza di guardare prima al sistema che al suo interesse (che non sparisce, viene solamente integrato). Prima il Titanic della sua suite presidenziale. Secondo: il sistema è protetto meglio da un gruppo omogeneo di soggetti piuttosto che da corpi intermedi spesso incapaci di proporre accattivanti prospettive sul futuro. Terzo: è sempre per l’appunto un tema di visione. Se vuoi essere efficace devi avere una visione: il rischio di collasso, i buoni contro i cattivi, un futuro prudente per uno rischioso.
Ho sempre pensato che una legge sulla lobby sia auspicabile ma non strettamente necessaria. Perché sono sufficienti gli approcci e i comportamenti a fare la differenza. Fare leggi migliori significa: lavorare preventivamente a definire il sistema, proporre una visione del suo futuro, farlo per l’appunto insieme, allo stesso livello. Invece da noi si lavora solo “dopo”. Dopo che qualcuno ha scelto il perimetro, dopo che la visione è stata calata dall’alto. Dopo, dopo, dopo. Su livelli diversi, con asimmetrie informative diverse. E, vi prego, non ditemi che questo significa dare primato alla politica. Perché il primato è essere capaci di fare sintesi compiendo scelte ex post e non fare scelte per poi guidare (da una posizione di forza) la sintesi.
Ne è esempio la “Buona Scuola”. Poco (nessuno?) dibattito preventivo di sistema, nessun dibattito sulla visione. Ci si batte su un testo già bello che preparato. Sarà anche la visione migliore, ma non è frutto di inclusione trasparente. Che è poi alla base di ogni legislazione efficace. Includere per coinvolgere. Coinvolgere per responsabilizzare. Perché lo scopo di una legge non è essere fatta ma essere accettabile, applicabile, valorizzabile da tutte le parti coinvolte. Inclusione delle lobby, non leggi nonostante le lobby. Concetto, mi rendo conto, difficile per la cultura di questo Paese.
Perché i processi legislativi nel nostro Paese non funzionano (e non funzionano!)? Perché non c’è lavoro sul sistema, perché non esiste visione, perché non si è grado di lavorare insieme. E allora si producono leggi improvvisate, le lobby si concentrano sugli emendamenti dell’ultimo minuto (che disastro!), i parlamentari sui dettagli di parte. Insomma: si arreda la suite, dimenticandosi del Titanic.