Mentre i ministri degli Esteri e della Difesa dell’Unione europea hanno iniziato a preparare una missione navale di pattugliamento dei confini meridionali dell’Ue con possibilità di ricognizioni intrusive fin sulle coste della Libia, il negoziato per comporre un governo libico è in stallo. Le due imprese non possono esser slegate e non farle procedere di pari passo rischia di creare le condizioni per cui l’opzione militare alla fine, come spesso ci viene detto, non sarà evitabile.
Da quasi un anno, cioè a seguito delle elezioni parlamentari dell’estate 2014, in Libia esistono due entità politiche che reclamano la legale rappresentanza del paese di fronte alla Comunità internazionale – sulla legittimità dei reclami per il momento non entriamo perché la qualità di quella tornata elettorale difficilmente può esser considerata rispettosa degli standard internazionali. Una ha siede a Tobruk, quella che oggi occupa il seggio all’ Assemblea generale delle Nazioni unite, l’altra a Tripoli. Questo divisione de facto del controllo territoriale della Libia ha consentito alle cosiddette tribù ribelli, alle organizzazioni criminali dedite al traffico di armi, droga ed esseri umani, oltre che al famigerato “stato islamico” di ritagliarsi zone di influenza tali che qualsiasi governo di unità nazionale si riuscirà a metter insieme non sarà mai capace di controllare tutto il paese.
La preparazione della missione navale – si noti che, malgrado si tratti di navi dei ministeri della difesa europei, si preferisce usare l’aggettivo “navale” piuttosto che “militare” – pare non aver incluso nei prerequisiti, almeno per il momento e almeno nelle dichiarazioni pubbliche, l’accordo con la controparte libica. Tra le conclusioni della riunione dei ministri degli esteri e della difesa del 18 maggio ci sono dichiarazioni relative alla necessità di un passaggio al Consiglio di Sicurezza che dovrà autorizzare la parte più intrusiva della missione che, è già stato deciso, sarà guidata dall’Italia.
Non solo quindi non è previsto un partner libico preciso, ma tutte le volte che i (vari e controversi) rappresentanti delle due entità “governative” libiche hanno affrontato pubblicamente la possibilità di avere un contingente navale internazionale nelle proprie acque territoriali – o addirittura sulle proprie coste – le parole son sempre state di totale opposizione. Per Tobruk vorrebbe dire riconoscere a Tripoli il controllo della costa occidentale del paese, la zona da dove tra l’altro avviene il maggior numero delle partenze dei barconi di migranti, per Tripoli vorrebbe dire perdere il potere negoziale in vista della creazione di un “governo di unità nazionale” avendo ceduto alle richieste della comunità internazionale di consentire una compresenza militare di mare e di terra con “partner” internazionali.
Conoscendo un po’ come va il mondo, è infine ragionevole ipotizzare che tanto i politici i di Tobruk, quanto quelli di Tripoli, per non parlare degli emissari informali delle compagnie petrolifere, siano in contatto, direttamente o indirettamente, a molte delle reti di criminalità organizzata e gruppi para-militari, presenti e attive in Libia in vari settori.
Quindi? Quindi occorre che, parallelamente alla preparazione della missione navale, che deve fare tesoro dei pregi e difetti dalla missione Atalanta, quella che le Nazioni unite dispiegarono nel golfo di Aden contro la “pirateria” – eventuali presenze militari su naviglio mercantile dovranno esser quindi corredate di precisissime regole d’ingaggio e chiara catena di comando – si rinforzino i tentativi dell’inviato delle Nazioni unite Bernardino Léon che in Marocco tenta di comporre un governo di unità nazionale per la Libia. L’unico modo di poter avviare un efficace ed effettivo processo di transizione dell’ex Jamayria verso lo Stato di Diritto è quello di non lasciar soli i libici nel governo del loro paese, almeno per una prima fase in cui occorrerà ricostruire le istituzioni democratiche e “vincere” i cuori e le menti di un popolo che per oltre 40 anni è stato lasciato in balia di un regime sanguinario e che ore è stato consegnato al caos successivo a un inopportuno intervento militare sancito dalle Nazioni unite.
Mai come adesso la missione Onu per la Libia deve essere in Libia, e non altrove, e deve garantire la presenza di rappresentanti dell’Alto commissario per i rifugiati. Le conseguenze dell’intervento militare del 2011 includono un’assunzione di responsabilità che va oltre il perseguimento di una Libia “stabile”. Solo se l’Onu sarà realmente presente, e in modo capillare, nell’ex regno di Gheddafi, una missione navale, o militare, tra la Liba e l’UE potrà aver un senso. Il resto serve solo a creare false illusioni, confusione di competenze e quindi, niente di buono per nessuno.
Marco Perduca è rappresentante all’Onu del Partito Radicale