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Isis a Palmira, una sconfitta dell’Islam. Parla Panella

I jihadisti dell’Isis hanno preso il controllo dell’intera città di Palmira e di metà del territorio siriano. Dopo giorni di combattimenti, le truppe fedeli al regime di Damasco si sono ritirate da tutte le loro postazioni nel centro e alla periferia del centro abitato, lasciandole ai drappi neri.

Quanto ne esce rafforzato il sedicente “califfato” islamico di al-Baghdadi? Quali le ragioni della caduta e le conseguenze per un Medio Oriente sempre più in fiamme? E soprattutto, quale la strategia occidentale per riprendere la città?

Sono alcuni degli aspetti analizzati da Formiche.net in una conversazione con Carlo Panella, firma del Foglio e di Libero e autore del “Libro nero del califfato” (Bur editore).

Panella, anche Palmira si è tinta di nero.

Sì, ed è un fatto gravissimo e preoccupante.

Per l’Unesco la distruzione di un sito come Palmira sarebbe non solo un crimine di guerra ma, “un’enorme perdita per l’unanimità“.

A parte il fatto che è singolare notare come tutti s’interessino molto di più ai tesori archeologici che non alle violenze perpetrate dai criminali, credo che il senso della conquista di Palmira non vada letto solo in senso storico, ma anche strategico.

Ovvero?

La presa della città è un tassello della strategia dell’Isis di tagliare le vie di comunicazione tra Damasco e il sud della Siria. Un modo per rendere sempre più possibile la caduta di Assad, che con i suoi fedelissimi finirebbe per rifugiarsi proprio dalle parti di Latakia, nelle zone originarie della sua setta alawita.

Che significato dare alla furia iconoclasta?

A suo tempo, non subito, l’Isis spargerà il sale anche su Palmira, semplicemente perché considera il sito un oggetto di idolatria. Si tratta della stessa furia iconoclasta di al-Qaeda contro il Buddha di Bamiyan. Ed è una delle tracce da seguire per capire come mai sia così debole il contenimento dello Stato Islamico da parte dei cosiddetti musulmani moderati. Questo atteggiamento distruttivo è un tratto caratterizzante anche di due scismi dell’Islam, quello wahabita – guidato dall’Arabia Saudita – e quello khomeinista. Basti ricordare che anni fa le autorità saudite ordinarono la distruzione della prima moschea di Maometto per le medesime ragioni che spingeranno l’Isis a radere al suolo Palmira.

E questo cosa significa?

Che sono due mondi che non la pensano così diversamente. E la dice lunga sulla facilità che hanno nell’avanzare in molti territori, compreso quello siriano.

Crede che per arginare quest’avanzata gli Usa inghiottiranno ancora di più il boccone amaro di una maggiore collaborazione con l’Iran, principale sponsor di Assad?

Sì, in parte questa tattica demenziale sta già avvenendo in Iraq, laddove Washington ha accettato che le milizie sciite riprendano Ramadi, dopo la sua caduta, dimenticando che è caduta proprio perché continua ad esserci il sostegno sunnita all’Isis. Aiutare gli sciiti non potrà che allargare questo solco. I sunniti hanno detto più volte che pur di non cadere sotto il dominio sciita, sono disposti ad allearsi col diavolo, lo Stato Islamico in questo caso. Siamo di fronte a una grande guerra interna al mondo arabo, ormai anche la guerra tra Iraq e Iran dell’80 andrebbe letta con questa lente.

Perché queste giravolte da parte di Barack Obama?

Tutto nasce dallo scriteriato accordo con l’Iran sul nucleare. Obama vuole chiuderlo a tutti i costi e prova a non indispettire nessuno, in verità facendo inalberare tutti e ponendo le basi per il caos regionale. Pensare oggi di contrastare l’Isis appoggiandosi all’Iran è una follia.

Quale strategia adottare allora?

L’unica possibile è quella che seguì Bush padre nel ’90 durante l’invasione irachena del Kuwait, ovvero mettere a disposizione della Lega araba un nucleo militare molto forte e favorire la nascita di una coalizione molto forte. Non serve necessariamente l’impegno a mandare uomini sul campo, ma la leadership americana è necessaria per inseguire e realizzare un accordo. Ora, invece, ci si muove senza alcuna strategia. Serve unire il mondo sunnita, non dividerlo ulteriormente.

Proprio quello che accadrà con la sentenza che condanna a morte Morsi.

Sì. La sentenza, probabilmente, non verrà mai applicata e in ogni caso la questione non dovrebbe avere riflessi su quanto accade in Siria e in Iraq. Ma le vicende del leader di un partito multinazionale come la Fratellanza Musulmana non possono che dividere in modo ancora più profondo un mondo sunnita caratterizzato da fronti contrasti interni, che rendono qualsiasi strategia comune e coordinata molto più difficile.



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