Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Malgrado le affermazioni, soprattutto da parte Usa, nella dichiarazione del 21 febbraio 2015 a Londra, che il gruppo del P5+1 che ha negoziato con l’Iran è “molto unito”; non occorre essere dei raffinati analisti strategici per dedurre una diversa realtà.
Cina e Federazione Russa, per esempio, non vogliono un Iran nucleare militare perché i missili dell’arsenale di Teheran, che possono arrivare ad oltre 2000 chilometri dal punto di lancio, potrebbero colpire anche il loro territorio.
La Russia ha già venduto, pochi mesi fa, i suoi missili S-300 a Teheran, che servono a contrastare i missili da crociera e gli aerei nemici, missili S-300 prodotti dalla russa Almaz insieme alla sudcoreana Samsung, con dei radar che coprono cento bersagli in contemporanea e con una gittata di 150-300 chilometri.
L’Iran ha promesso alla Russia di non fare “reverse technology” del nuovo sistema missilistico ma, si sa, le promesse tecnologico-militari sono scritte sulla sabbia. Mosca ha già in attività un sistema più evoluto, lo S-400, conosciuto nella terminologia Nato come SA-21 Growler.
I missili S-300, è bene ricordarlo, rimangono sempre sigillati e non necessitano, nella loro programmata vita operativa, di interventi di manutenzione.
Ma Mosca vuole un Iran aggressivo per distrarre l’Occidente e per moltiplicare i punti di attacco verso Ovest, è una strategia che ricorda quella della Nato verso l’Urss quando trattata con Mosca senza mettere nel conto i sistemi nucleari autonomi francesi e britannici, negli anni della “guerra fredda”.
Per la Federazione Russa, un Iran armato è una garanzia per la stabilizzazione dell’Asia Centrale e per la trasformazione della Shangai Cooperation Organization in una struttura che, da essere una “Unione Economica Europea in Asia” si sta trasformando in una vera e propria Nato dello Hearthland.
La natura della Sco è stata inizialmente, durante la sua fondazione avvenuta poco prima dell’attacco qaedista alle Torri Gemelle, quella di una organizzazione per la sicurezza collettiva antiterrorismo tra Cina, Kazakistan, Russia, Tagikistan, Uzbekistan e Kirgizistan. Gli Stati “osservatori” sono, è utile ricordarlo, Afghanistan, Iran, Mongolia, India e Pakistan. Le nazioni poi della “partnership del dialogo” con lo Sco sono la Bielorussia, lo Sri Lanka e, guarda caso, un membro della Nato, la Turchia.
Quindi, l’attenzione di Mosca all’Iran, proprio nelle more del Joint Comprehensive Plan of Action del P5+1 con la Repubblica Islamica dell’Iran significa, in breve, che la Russia vuole utilizzare il potenziale di Teheran nel quadro Sco e aumentare la soglia della minaccia tra Iran e Paesi Occidentali del P5+1, per diluire la minaccia Nato sui suoi confini.
Pechino è interessata a controllare l’Iran nucleare per molti motivi: la messa in sicurezza delle linee petrolifere che vanno dall’Iran verso il suo territorio; e la Cina, lo ricordiamo, costruirà una pipeline tra l’Iran e il Pakistan, da Asaluyeh nel territorio iraniano fino a Gwadar, il porto pakistano che è ormai di proprietà cinese,per arrivare, con una linea costiera, a Nawabshah, ai confini con l’India.
Dopo, nei progetti futuri sino-pakistani, la pipeline dovrebbe arrivare a Lahore attraversando Islamabad e Peshawar, fino al confine cinese a Kashgar.
Sempre per Pechino, l’amicizia con l’Iran significa la collaborazione della Repubblica sciita nelle attività antiterrorismo sulla direttrice panturanica che va dall’Anatolia fino alla minoranza sunnita dello Xingkiang.
E’ una direttrice che separa Pechino da una linea stabile di controllo diretto del Tibet, che è uno hub primario militare-nucleare e di cyberwar per la Cina, verso la Russia e la penisola eurasiatica.
Inoltre, occorre ricordare che, come notano molti studiosi di varie origini, nel Trattato di Non Proliferazione non è chiaramente proibita l’attività nucleare dual-use, civile e militare.
Si pensi in questo caso ai programmi nucleari del Giappone, della Siria, che temiamo cadano presto nelle mani del sedicente “califfato” di Al Baghdadi, della Corea del Sud o del Brasile, per dirne solo alcuni. E per non parlare della Germania e dell’Egitto.
Solo l’Italia, aggiungiamo, si è appassionata in modo eccessivo e talvolta umoristico alla denuclearizzazione, fino ad arrivare alla castrazione energetica e strategico-militare definitiva.
Il Tnp, il Trattato di Non Proliferazione Nucleare, lo ricordiamo qui facendo buon uso di una battuta di Charles De Gaulle, “proibisce il possesso di armi nucleari, ma non impedisce di percorrere tranquillamente tutto il cammino che conduce ad esse, e questo fino agli ultimi cinque minuti”.
Si aggiunga poi che il Tnp non è nemmeno una base affidabile per trattare tutte le questioni riguardanti l’ammodernamento degli arsenali esistenti, dei nuovi tipi di ordigno nucleare, del miglioramento dei missili da trasporto delle testate, dei sistemi di guida e controllo, e di tutte quelle tecnologie che permettono di fare moltissimo con poco, come infatti si suppone che intenda fare l’Iran.
Una evoluzione tecnica che rende irrilevante il concetto stesso di “soglia nucleare”.
In altri termini, il Tnp non è una base del tutto utile per discutere la denuclearizzazione militare-civile della Repubblica sciita dell’Iran.
La Cina ha quindi un serio problema islamista (e sunnita): tra gli uiguri, nello xingkiang e nella provincia centromeridionale dello Hunan, il popolo Hui nel Nordovest cinese e nella Pianura Centrale sinica, e molte altre minoranze sunnite che sezionano l’Asia Centrale, Pechino teme la realizzazione di un nuovo califfato che va dalla Turchia fino alle sue piane centrali, che è appunto l’essenza del progetto panturanico turco.
La Cina non può fare quindi a meno della Repubblica sciita iraniana. E il nucleare iraniano può fare “coupling”, come dicevano gli analisti strategici negli anni ’70, con quello cinese contro il livello non trascurabile di nuclearizzazione giapponese.
Sul piano economico, sempre sensibilissimo per Pechino, il commercio bilaterale con l’Iran vale oltre 52 miliardi di dollari, e i dati sono del 2014, con una crescita media annuale del 7-8%. Il 9% delle importazioni iraniane, oggi, viene da Pechino. Teheran è poi il terzo partner petrolifero, in ordine di grandezza, della Cina.
Inoltre, Pechino vuole che l’Iran si stabilizzi per definire con la repubblica sciita una “Strada della Seta Marittima” e una “fascia economica della Via della Seta” che sono al centro della visione strategica e economica di Xi Jinping e del suo nuovo gruppo dirigente nel Pcc.
Il progetto di Xi ricorda quello di Jiang Zemin di investire sulla zona occidentale della Cina, per uscire dalla camicia di forza geografica e strategica che soffoca Pechino e ne limita stabilmente il suo potenziale di sviluppo.
Si tratta, detto semplicemente, della fusione infrastrutturale tra l’area sinica e l’Eurasia fino al Mediterraneo.
Sempre per Pechino, il Joint Comprehensive Plan of Action del P5+1 sull’Iran è il tentativo di stabilizzare una regione, il Grande Medio Oriente, che ha bisogno di unificare le proprie vecchie aree politiche (il frazionismo degli Stati ereditato dal Trattato Sykes-Picot del Maggio del 1916) e di depotenziare lo scontro egemonico, pericoloso per tutti, tra sciiti e sunniti, diretti dall’Arabia Saudita.
In un contesto in cui l’Unione Europea è pressoché inesistente e inconsistente, quando poi gli Usa danno segni inequivocabili di disinteresse per l’area, tutti presi dal loro “shale oil” che già oggi li vede sopra i sauditi come quantità di petrolio estratto, e mentre la Federazione Russa subisce tensioni ai suoi confini ucraini e artici, Pechino trova razionale porsi, nel quadro del Joint Comprehensive Plan of Action sull’Iran, come potenza credibile per la mediazione e l’unificazione strategica del Grande Medio Oriente.
Unificazione possibile oggi dopo che esso è stato frazionato pericolosamente dall'”imperialismo europeo”.
E si sente qui, anche nella linea di Xi Jinping, la lunga eco della teoria maoista dei “Tre Mondi”, quello “imperialista”, il “revisionista” sovietico, con economie secondarie rispetto al Primo, e il Terzo, le “periferie globali”, che Pechino tende ad egemonizzare e unificare.
Inoltre, la Cina vuole dare la credibile impressione di essere un mediatore affidabile per l’Occidente, non un cinico “free rider”.
Sarà Pechino a lubrificare l’Accordo con l’Iran, quando sarà necessario.
La Francia vuole una politica dura contro la proliferazione nucleare semplicemente perché l’arma atomica ce l’ha già. Chi non mangia ha già mangiato.
Meno concorrenti ci sono sull’arma atomica, sempre maggiore il peso strategico del “Tridente” nucleare che fu programmato dal generale Beaufre durante una lunga chiacchierata notturna con l’allora Capo dello Strategic Air Command Usa Curtis LeMay.
De Gaulle, da vecchio militare di carriera, credeva poco a che i missili Usa-Nato avrebbero colpito Leningrado dopo l’attacco sovietico su Lione. Anche “mon Général” credeva che la guerra fredda, per dirla con Mao Zedong, fosse “una tigre di carta”.
Fu infatti la domanda del vecchio capo di France Libre all’ambasciatore Usa a Parigi a rivelare a De Gaulle come il bellicismo apparente della allora dottrina della “preemptive response” Nato fosse scritta sulla sabbia, anch’essa.
Quindi Parigi, come ha dimostrato il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius, ha una posizione duramente antiraniana, e legge l’Accordo del P5+1 come uno strumento per il depotenziamento strutturale del regime sciita.
E’ bene ricordare che Parigi, durante la guerra decennale Iran-Irak, ha sempre apertamente sostenuto Saddam Hussein, ed ha oggi un ottimo rapporto con i nemici dichiarati dello sciismo iraniano come Qatar e Arabia Saudita, che saranno i prossimi pivot della geopolitica francese nell’area.
Questo, fra l’altro, spiega l’apparentemente ingenua politica di “multiculturalismo” e filoislamismo in Francia, che nessun “Je suis Charlie Hebdo” potrà mai far mutare.
Recentemente, il 5 Maggio scorso, il presidente Hollande e il re Salman, capo dello stato dei Due Luoghi Santi, hanno siglato congiuntamente una dichiarazione che non ha bisogno di commenti: “questo accordo (il P5+1 con Teheran, ndr) non deve destabilizzare la sicurezza e la stabilità della regione né tantomeno minacciare la sicurezza e la stabilità dei vicini dell’Iran”.
Ogni aggiunta è inutile. Parigi gioca tutte le sue carte sull’Islam sunnita, vuole l’accordo del “Plan of Action” per indebolire stabilmente l’Iran, e poi vende armi evolute, (ben 24 Dassault Rafale a Doha) in previsione di uno scontro regionale che per ora si materializza tramite gli alleati secondari dei due campi islamici, lo sciita e il sunnita, Ma nulla vieta che la tensione scoppi tra gli attori primari.
Dopo le azioni dei ribelli zayditi Houthi in Yemen, sostenuti dall’Iran, dopo la presa di Ramadi e l’arrivo prevedibile del “Califfato” di Al Baghdadi ai confini del Libano, lo scontro passerà prevedibilmente agli attori principali della regione.
Gli Usa sono stati molto cooperativi nel dibattito sul Jcpa e hanno accettato gran parte delle posizioni iraniane.
Il motivo è chiaro anche qui: il sostegno, che mentre scrivo è divenuto esplicito, degi Hezbollah libanesi alla lotta a tutto campo contro il Califfato di Al Baghdadi.
Una mossa dell’Iran, evidentemente.
Poi gli Usa vogliono, senza apparire, la protezione dello stato-cuscinetto siriano, che gli americani hanno superficialmente “mostrificato”, creando una tensione che ha favorito solo i jihadisti. Infine Washington desidera, senza dirlo esplicitamente, un possibile basso profilo di Teheran nel Golfo Persico, per evitare una tensione gravissima nell’area e quindi un blocco sostanziale dei petroli Opec e del traffico commerciale internazionale, che passa da quello hub per circa il 70%.
Il Segretario di Stato John Kerry ha accettato, secondo le voci uscite dal contesto della trattativa, una apertura parziale del generatore di Fordow, che voleva far chiudere, ma ha alla fine accettato la linea iraniana. Per Washington, il successo della trattativa si materializza con una ottimistica ipotesi di “democratizzazione” progressiva del regime sciita di Teheran in corrispondenza della cessazione delle sanzioni.
Questa correlazione automatica tra crescita economica e democratizzazione costerà, ma non lo speriamo di certo, molto cara agli statunitensi.
Più si stabilizza il regime di Teheran, più risorse saranno probabilmente concesse al sistema militare iraniano, che è già temibile e non si basa solo sul nucleare civile-militare.
La Russia è l’amico del giaguaro. Mosca monopolizza la fornitura del materiale fissile all’Iran, soprattutto per il reattore di Bushehr.
La Rosatom russa ha accettato di aggiornare, nel novembre 2014, tutto il programma nucleare civile iraniano. Se oggi, dicono i dirigenti di Rosatom, il 90% dell’energia iraniana viene da idrocarburi, che vengono sottratti così al commercio internazionale, dal prossimo anno oltre nove milioni di case e imprese iraniane saranno elettrificate con l’energia dal nucleare.
Viene in mente Lenin, quando diceva che “il socialismo è il soviet più l’elettrificazione”.
Poi, Iran e Russia hanno la stessa linea sul conflitto in Siria, e ricordiamo qui che la Federazione Russa gestisce una base militare navale a Tartus, sulle coste mediterranee della Siria, (ma Mosca dice ufficialmente che è una “base logistica”) e una postazione di intelligence (Sigint, Signal intelligence, per la precisione) a Tel-Hara, nell’area delle alture del Golan, il “Centro C”.
Mosca e Teheran vogliono poi depotenziare sia i sunniti, e in particolare la loro fazione jihadista, sia i Paesi occidentali che, con questo Comprehensive Plan of Action saranno ancora più convinti a lasciare definitivamente l’area, che è il loro reale desiderio.
E’ questo il motivo per cui, come è il caso degli Usa, accetteranno qualsiasi accordo, pur di non pensare a questa faticosa e complessa materia che è la politica estera.
Per la Germania, la questione del Jcpa è complessa più di quanto non si creda.
Berlino ha ottime relazioni commerciali con l’Iran, ma ha sempre assunto un bassissimo profilo nelle discussioni del P5+1, e non ha nessuna intenzione di favorire una reale distensione tra Washington e la Repubblica sciita. Questo mercato è mio e me lo tengo, si potrebbe riassumere così la linea tedesca.
Ma la geopolitica non è una sottomarca dell’economia, è bene ricordarlo.
Per la Gran Bretagna, che non ha nemmeno oggi una ambasciata aperta a Teheran, la questione primaria è quella di fare in modo che gli Usa gli aprano il mercato iraniano senza troppi impegni e senza molta fatica.
Se continua a ragionare così, comunque, l’Europa morirà e la stessa economia, ossessione di politici tanto furbi e quindi ingenui, languirà, perché la ricchezza è una immagine riflessa della potenza, non viceversa.