Il 2 giugno è probabilmente il giorno migliore per interrogarsi sul concetto di interesse nazionale. Si tratta infatti di una “categoria” del pensiero politico poco utilizzata nel dibattito pubblico italiano (nelle altre democrazie è tipicamente un faro che illumina le scelte da compiere mentre nei regimi corrisponde in re ipsa alle decisioni della dittatura) e la cui declinazione non è affatto né scontata né univoca.
Prendiamo il caso della recente visita di Paolo Gentiloni in Russia. Mosca è al centro di una controversia internazionale non banale. Putin ha attentato alla sovranità dell’Ucraina (annettendo la Crimea e minacciando la regione orientale di Kiev) e per questo la comunità internazionale – Usa e Europa – hanno stabilito sanzioni economiche e diplomatiche cui peraltro ha corrisposto una analoga reazione russa (si veda il caso della “lista nera” voluta dal Cremlino nei confronti di 89 diplomatici europei).
In un contesto così delicato sul piano degli affari esteri, l’Italia ha assunto una posizione “trina”: da una parte ci presentiamo come sostenitori della linea occidentale a favore della sovranità ucraina e dall’altra ci proponiamo come supporter di Mosca spiegando come l’ex Unione Sovietica rappresenti un player decisivo negli altri quadranti di crisi globale (Siria, Iran e Libia, per esempio). Infine, invochiamo (a torto o a ragione?) l’interesse economico del nostro Paese rispetto al business, ovvero in relazione agli scambi commerciali delle nostre imprese in Russia.
Dopo che la visita del presidente del Consiglio Renzi al capezzale di Putin aveva creato, soprattutto a Washington, non poco sconcerto, ieri è toccato al ministro degli esteri Gentiloni fare visita nel Paese patria autodefinita dell’Eurasia incontrando, fra gli altri, l’omologo Lavrov (ovviamente in una conferenza stampa ben pubblicizzata dalla propaganda di Putin per dimostrare come l’Europa non sia affatto unita rispetto alla linea dura nei confronti del Cremlino).
Qui Gentiloni ha rilanciato sulle relazioni economiche (proponendo non solo il “made in Italy” ma anche il “made with Italy”) e, al netto di qualche timidissimo – e comunque impercettibile – distinguo formale sull’Ucraina, si è rivolto alla Russia (membro del Consiglio di Sicurezza dell’Onu) per chiedere aiuto sulla risoluzione che l’Italia sta proponendo alle Nazioni Unite rispetto alla crisi libica.
E’ evidente che il governo italiano ha fatto del dossier Libia la sua priorità di politica estera e a questo “interesse nazionale” subordina ogni altra opzione. L’esigenza del trovare un punto di equilibrio nel Mediterraneo, coerentemente con questa impostazione, prevale del tutto sulla vicenda Ucraina (e dintorni). Questo sta spingendo il Paese a muovere sul piano diplomatico con una propria specifica “agenda”. In Europa per esempio lo sforzo è concentrato per esempio sul piano di accoglienza degli immigrati e contrasto ai flussi migratori dalle coste del nord Africa.
Tutto bene, se non fosse che Germania e Francia (con non pochi alleati) esprimono più che perplessità sulla proposta di Roma. Quale potrebbe essere lo scenario della nostra presenza nella UE se non si trovasse un onorevole compromesso che non umili il nostro interesse nazionale? Allo stesso modo: cosa accadrebbe se la “nostra” risoluzione si arenasse all’Onu ma restasse invece agli atti solo il nostro fuorigioco a favore della Russia?
Non ci sono scelte che non presentino rischi. E costi da pagare. Il problema del nostro Paese forse risiede nella superficialità con cui affronta il tema proprio degli interessi nazionali. Il punto non sta (solo) nel merito delle valutazioni che il governo assume, ma nel metodo. Non trattandosi di decisioni che vengono assunte con la solennità del caso (coinvolgendo il Parlamento, utilizzando correttamente e pienamente istituzioni come il Comitato Interministeriale per Sicurezza della Repubblica) bensì affidate alle capacità del premier di turno, il più delle volte prevale un approccio da “short term”. Oggi che sono a Mosca abbiamo un interesse, domani che andiamo a Washinton possiamo averne un altro. E in ogni caso, siamo pronti a piegarli entrambi sulla base delle circostanze che dovessero presentarsi.
Queste valutazioni, svolte troppo spesso a livello di superficie, rendono le nostre già deboli armi diplomatiche quasi del tutto spuntate. Quale credibilità può avere un Paese che non ha una visione capace di profondità e prospettiva temporale? L’interesse nazionale è un concetto serio e non una bandiera da esporre alla volubilità del vento. E l’attuale “libizzazione” della nostra politica estera presenta criticità non banali e un prezzo molto alto che, c’è da scommettere, ci sarà fatto pagare senza il minimo sconto.
Ne siamo consapevoli? Siamo disposti a farci carico di questi costi? Oppure speriamo in qualche modo di cavercela proponendo ai nostri alleati e partner il gioco delle tre carte? Nel giorno in cui celebriamo la festa della Repubblica probabilmente una riflessione in più avremmo il dovere di farla.