Gruppo Bilderberg, Commissione Trilaterale, Wall Street, CIA, IOR. La costellazione di soggetti che popolano l’affollata categoria dei ‘Poteri Forti’ si estende a perdita d’occhio fino a lambire il dibattito sull’energia. Il cattivo per eccellenza, in questo ambito, è l’OPEC: tiranno dei prezzi del petrolio, despota dell’accesso all’energia, sinonimo retrogrado dell’egemonia delle fonti fossili.
Quello che ne deriva è un clima di opinione costruito attorno ai contorni di una realtà ‘aumenta’. Le opacità legate a questi consessi sono in molti casi autentiche, ma inducono altrettanto spesso a perdere di vista l’impatto reale sull’economia, sulla storia, sugli stati e gli individui. L’informazione e la percezione diffusa viaggiano su un livello distante dal vero, mentre, molto spesso, il re è nudo.
Il caso di OPEC è, in questo senso, assai controverso: osservata da vicino, l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio assomiglia al ‘guerriero di carta igienica’ di tozziana memoria più che all’arbitro indiscusso della politica energetica mondiale.
Di questa opinione è, ad esempio, Leonardo Maugeri, secondo il quale il mito dell’OPEC affonda le radici nell’equivoco che a questa organizzazione si debbano lo shock petrolifero del 1973 e le nazionalizzazioni degli anni ’70. Il ruolo giocato dall’OPEC in questi eventi sarebbe, secondo Maugeri, assimilabile ad una cassa di risonanza di interessi e decisioni squisitamente nazionali.
Le voci degli analisti che segnalano la crescente fragilità dell’OPEC riescono a fatica a scalfire una narrazione mediatica – e non solo – ormai sedimentata. E così non tutti sanno che i prezzi del greggio sono oggi determinati da un mercato in cui l’offerta cresce più della domanda. In questa dinamica, l’OPEC ha dimostrato una palese incapacità nel definire una politica comune sui volumi da produrre.
Mentre l’innovazione tecnologica apre il varco ad una rinnovata disponibilità di risorse (shale, sabbie bituminose, etc) a tutto vantaggio degli USA, l’OPEC sembra ormai appiattita sulle posizioni dell’Arabia Saudita. Quest’ultima, nel tentativo di penalizzare la competitività di greggio e gas americani, continua a tenere inchiodata la produzione di petrolio a 30 milioni di barili al giorno.
Un partita di conservazione, che rischia tuttavia di segnare la fine dell’Organizzazione stessa: reggere a un nuovo periodo di prezzi relativamente bassi del petrolio può infliggere un colpo pesante alle economie dei Paesi aderenti e allo stesso regno saudita.
Troppo presto per smettere di preoccuparsi dell’OPEC?