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Cosa manca a Matteo Renzi

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Da Benjamin Constant ad oggi, la teoria politica ha definito la differenza tra la democrazia degli antichi e quella dei moderni come lo iato tra democrazia diretta e potere delegato ai “pochi” di esercitare la sovranità in nome e per conto del popolo, che la detiene stabilmente come un tutto atemporale.
C’è quindi il problema di definire, e questo è stato l’oggetto delle ancora attualissime meditazioni di Gaetano Mosca, il rapporto tra la “classe politica” e il resto della classe dirigente, che non ha la delega all’esercizio della sovranità popolare ma, nondimeno, è quella che manda avanti la baracca.
Sono questi i “tecnocrati” di cui parlava Saint Simon, che nascono come categoria proprio con la nascita della sovranità popolare.

Sono proprio loro che limano le unghie alla classe politica ed evitano che divenga un gruppo pericolosamente onnipotente.
Detto questo, passiamo all’oggi: la classe politica, soprattutto in Italia, è ormai pochissima cosa, ma c’è ancora un nucleo di “tecnocrati” sansimoniani che può garantire la stabilità, l’efficienza, la stessa democraticità del sistema economico e politico.

Come e perché la classe politica italiana sia caduta così in basso è un problema complesso. Temo che le classi dirigenti vere siano quelle che nascono dopo una guerra, vinta o persa poco importa.
Penso qui al Codice di Camaldoli, dove uomini politici, intellettuali e “tecnocrati” cattolici costruirono, nel terribile luglio del 1943, il progetto di base della Nuova Italia.
Una tecnocrazia cattolica (d’altra parte Saint Simon aveva scritto il “Nuovo Cristianesimo”) che ricostruì l’industria di Stato, che ha rimesso in piedi l’Italia, lasciando poi ai privati, keynesianamente, l’innovazione economica, i consumi di massa, la manifattura dei beni secondari.

I “boiardi di Stato” ai quali mi onoro di aver appartenuto, hanno costruito la democrazia moderna e dei moderni nonché la base economica del consenso delle masse.
Il metodo era quello della “economia sociale di mercato”, come la chiamavano gli studiosi, cattolici anch’essi in gran parte, della “Scuola di Friburgo”.
I “boiardi” hanno costruito le grandi infrastrutture per le quali i privati non avevano capitali o capacità e dato l’autonomia strategica ed energetica al nostro Paese.

Alle spalle avevano una classe politica che li sosteneva e che comprendeva i loro sforzi e le grandi strategie a lungo termine; per evitare che il nostro Paese rimanesse “Serva Italia di dolore ostello, nave sanza nocchier in gran tempesta, non donna di provincia, ma bordello”.
È il canto VI del Purgatorio di Dante, una invettiva a Firenze e all’Italia.
E oggi come va, con l’ex-sindaco di Firenze, appunto, alla direzione del Governo? Male, molto male, Dante Alighieri temo sarebbe ancora più nervoso.

Intanto, il rapporto tra Roma e l’Ue, centrale in questi anni, dopo la tecnicamente errata nostra adesione in prima battuta alla moneta unica, è ai minimi termini.
Mi viene in mente quando con Karel Van Miert privatizzammo, nel quadro d’insieme dell’Iri, pur con i limiti di una legislazione italiana che, presupponendo la responsabilità illimitata dell’azionista, veniva letta da Bruxelles (e l’errore era il loro) come “aiuto di Stato” la Società Autostrade.

Mi rammento qui del bellissimo libro di Enrico Menduni sull’Autostrada del Sole, che unì davvero tutto il nostro Paese ed è ancora oggi il tratto più lungo in esercizio in Italia.
Fu fatto dai “boiardi”, e io sono stato Presidente di Autostrade per l’Italia SpA.
Bene, io c’ero, eccome, anche da Presidente di Autostrade; e mi ricordo anche che fu solo grazie alla mia specifica trattativa che l’amico Van Miert, uno straordinario e intelligentissimo tecnocrate europeo, che avemmo il permesso di prolungare la concessione fino al 2038, al fine di recuperare gli investimenti già compiuti al momento. Una concessione fatta a pochissimi, e mai con questa durata temporale, in tutta la Ue.

Ho tra le mani una bellissima lettera del presidente Carlo Azeglio Ciampi che si congratula con me per il lavoro svolto e mi ringrazia caldamente e esplicitamente per quello che ho fatto per l’Italia in Europa, l’ambito naturale delle nostre attività economiche e politiche.
Oggi, questo rapporto tra classe politica ormai scarsamente dirigente e classe dirigente non politica è venuto, di fatto, meno.

Si vede alla Nato, dove i nostri militari, pur spesso bravissimi, non sono valorizzati, si vede alla Ue, dove i nostri politici e, purtroppo, i nostri tecnocrati, non sono tenuti in alcuna considerazione.
Si vede ancora nel rapporto tra Governo e intelligence, con un ministro degli Esteri evanescente e un responsabile della Difesa che pensa soprattutto alla sua carriera personale.
Dove crediamo di andare, da soli? Certo, il presidente Matteo Renzi è pieno di energie, ha una “volontà di potenza” politica che, da sola, lo mantiene a galla.
Ma bisogna studiare, caro presidente, non basta la fortuna sfacciata e la “wille zur macht” nicciana, per governare.

Occorre la tecnica, occorrono i tecnocrati sansimoniani, serve la conoscenza dei fatti, magari approfondita e attenta, non “de relato” presa da qualche articoletto di giornale. E’ necessaria una cultura di governo e una vasta e affidabile rete di rapporti internazionali non banali e mai superficiali.
Non serve a nulla la solita “photo opportunity” sui giornali; non si comanda con la sovraesposizione sui media, si esercita il potere solo quando ci si fa vedere poco in giro e si parla solo con quelli che contano davvero e ti stanno a sentire rispettosamente, perché di te hanno stima intellettuale e professionale.
Forse, lo dico con la mia consueta brutalità, sarebbe bene che Renzi cambiasse la sua squadra di governo, che va bene per gestire il potere al Comune di Laterina o tra i ceramisti di Montelupo-Capraia, dove, se lo ricorderà, Presidente, “Dio fa le persone e poi le appaia”.

Se c’è una attività che non si deve mai far svolgere dai dilettanti, questa è l’arte del Governo. Ricordo che Machiavelli, nel suo “Principe”, afferma che nei tempi buoni sono sovrane le leggi, ma in quelli “perigliosi” sono sovrani gli uomini che, nel perimetro delle norme, vanno oltre il loro tempo.
Era il problema, questo della nuova correlazione strategica tra tecnocrati sansimoniani e uomini politici, che si pose il caro e molto rimpianto amico Antonio Maccanico, un altro “boiardo di Stato”, non a caso.
Mi ricordo un suo convegno, ad Avellino, su “democrazia, liberalismo e socialismo” e la sua attenta ricostruzione di un quadro dirigenziale nazionale con la sua proposta di “nuova democrazia”.
Si trattava di un nuovissimo patto costituzionale, ma di quella Costituzione che un giurista cattolico presente a Camaldoli, Giuseppe Capograssi, chiamò “Costituzione materiale” di contro a quella meramente formale.

Era proprio quella la strada per ricostruire lo Stato e selezionare la nuova classe politica, dopo la grande stagione dei Cossiga, degli Andreotti, dei Craxi, dei Berlinguer, e per pensare ad una nuova classe dirigente di fatto e di diritto, comprendente uomini di tutte le culture politiche, per ricostruire il Paese e stabilirne il suo futuro.

È il progetto che abbiamo in mente anche oggi, e che dobbiamo riprendere dalle mani sapienti di Antonio Maccanico.
Un gruppo metapolitico di tecnocrati e sapienti, con diverse sensibilità culturali e politiche, che si proponga non di farsi fotografare con qualche presidente USA, ma di “rifare lo Stato” e quindi anche la classe politica.
È una sfida che lancio a tutti i miei amici, colleghi, tecnocrati e cultori di scienza politica di rango.

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