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Ecco come i magistrati scrivono l’agenda di Renzi

Per quanto fosse arrivato alla segreteria del suo partito, e poi anche alla guida del governo, con il proposito di restituire il primato alla politica, riducendo i condizionamenti giudiziari che avevano sepolto la cosiddetta prima Repubblica e distorto anche la seconda, Matteo Renzi si è trovato via via costretto anche lui a fare i conti con la magistratura. Che, volente o nolente, apposta o a caso, continua a dettare l’agenda a Palazzo Chigi e dintorni.

Ogni volta che il presidente del Consiglio ha dato l’impressione dello strappo, intervenendo sulle ferie lunghe delle toghe, per esempio, o sulla loro responsabilità civile, e opponendo sarcastici “brividi” agli annunci o alle minacce di scioperi nei tribunali, si sono dovuti rapidamente registrare segnali di senso contrario. Il passo è stato quello del gambero.

Ai magistrati, d’altronde, il capo del governo è apparso troppo contraddittorio per essere preso davvero sul serio, e indurre la parte più sindacalizzata e politica della categoria togata a cambiare le abitudini degli ultimi vent’anni e più.

Si è ben poco credibili, per esempio, nel proposito di restituire alla politica il primato che le spetta se le si consente, al centro e in periferia, di distinguersi nel malaffare, o se ci si illude di prevenirne l’insorgenza, o di limitarne i danni, chiamando i magistrati a svolgere ruoli impropri, come sono tutti quelli diversi dalle funzioni giudiziarie.

Se fosse dipeso da Renzi, e non gli si fosse opposto l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, sarebbe oggi ministro della Giustizia un magistrato, spostato direttamente dal suo tribunale, senza neppure un passaggio intermedio.

Non è stata una promozione della politica, una scommessa sulla sua capacità e volontà di fare da sola, la decisione di chiamare un magistrato a presiedere l’Autorità contro la corruzione. E, magari, coprirsi dietro qualche suo giudizio o iniziativa per contestare la guida politica della Commissione parlamentare antimafia o perseguire la modifica della cosiddetta legge Severino, rivelatasi così problematica da rischiare ormai la bocciatura della Corte Costituzionale. Una legge di cui il presidente del Consiglio non ha avuto sinora il coraggio di promuovere una correzione per il timore di non sembrare abbastanza severo sul terreno della moralità nella pubblica amministrazione, ma anche, o soprattutto, per non contraddirne la santificazione fattane due anni fa, quando servì ad estromettere Silvio Berlusconi dal Senato con un’applicazione addirittura retroattiva, e a votazione palese.

Nelle scorse settimane è bastato che prendesse corpo la possibilità dell’elezione di Vincenzo De Luca a governatore della Campania, e di una sua sospensione solo formale e brevissima con il congegno già collaudato di un ricorso al tribunale amministrativo regionale, perché la Cassazione trovasse il tempo, oltre che la voglia, di rovesciare il quadro passando la competenza dei ricorsi alla magistratura ordinaria.

Le carte di De Luca, come quelle del presidente del Consiglio intenzionato a non vanificare gli effetti del voto in Campania a favore del Pd, si sono assai complicate. Le procedure più lente, e meno prevedibili, della magistratura ordinaria espongono De Luca ad una sospensione più lunga ed effettiva, e Renzi a procedure inedite per garantirgli la preventiva nomina di un vice di fiducia. E tutto questo per una condanna solo in primo grado per abuso d’ufficio, peraltro senza danno patrimoniale, contestato a De Luca come sindaco di Salerno: un reato che l’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani, amministratore locale di lunghissimo corso, ha paragonato ad “una multa stradale per un camionista”.

Probabilmente Piero Sansonetti esagera sul suo giornale, Il Garantista, a prospettare un piano giudiziario contro Renzi, tirando in ballo anche una piccola vicenda genovese del padre del presidente del Consiglio, oltre alle clamorose inchieste di Roma, Trani, Catania, Firenze e altrove, con ministri, sottosegretari e parlamentari costretti alle dimissioni o sotto rischio di arresto, e potenziali effetti anche sui risicati numeri della maggioranza al Senato. Dove il governo è alle prese con difficili prove politiche come le riforme della scuola e del bicameralismo.

Ci sono tuttavia tante coincidenze, tanto rumore e tanta confusione da non potersi sottrarre alla tentazione, quanto meno, di ripetere la massima andreottiana secondo cui a pensare male si fa peccato, ma spesso s’indovina.


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