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Atene e Roma, “La rebelión de las masas”

Vendola, Salvini, Grillo, Fassina e Brunetta esultano per la vittoria del no al referendum greco. Ormai si sono specializzati nei festeggiamenti per conto terzi.

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Merkel e Hollande hanno dichiarato che per Tsipras la porta resta aperta. Sbaglierò, ma non escludo che il leader di Syriza possa invece trovarsi di fronte a una situazione sempre più dracmatica.

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Quando una decina di giorni fa fallì il negoziato tra Atene e Bruxelles, Massimo D’Alema osservò polemicamente che (per colpa dei tedeschi) le Borse europee avevano perso circa trecento miliardi di euro, pari quasi all’intero ammontare del debito pubblico ellenico. Se è per questo, ieri lo straripante successo di oxi non ci è costato molto meno.

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Negli anni Venti del secolo scorso il governo di Primo de Rivera venne definito in Spagna “dictablanda” (in opposizione scherzosa al termine “dictadura”), in quanto non aveva le catteristiche repressive del fascismo. È in quel periodo che Ortega y Gasset concepì il suo capolavoro, “La ribellione delle masse” (1930). Noi viviamo – sosteneva allora il grande filosofo – nell’epoca del “bambino viziato”: deve pensare a tutto lo Stato, lui non deve badare a nulla, si deve limitare a essere conformista. Un po’ come quelli che oggi, poiché il lavoro è un diritto, o lo Stato mi garantisce un lavoro oppure mi garantisce un reddito “a prescidere”, come diceva Totò. Ovviamente, Grillo e tanti altri lo chiamano di cittadinanza, tanto per nobilitarlo agli occhi dell’opinione pubblica.

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Il prefetto Gabrielli sta per emettere il suo verdetto su Roma e le campagne moralistiche contro le ignominie dei ladri e faccendieri della Capitale continuano a tenere banco. Qualcuno se la prende ancora con la magistratura, con i suoi complotti o addirittura con i suoi golpe. È perfettamente inutile. La verità è che non soltanto il sindaco Marino, ma un’intera classe dirigente è sotto scacco. Perché – per riprendere l’immagine di Bernarde de Mandeville – ha esibito molti vizi privati e offerto pochi benefici pubblici. Insomma, non ha più autorevolezza. Un padre può perdere la sua autorevolezza sia picchiando il figlio che discutendo con lui, cioè sia comportandosi come un despota che trattandolo come un uguale. Per poterla conservare ci vuole rispetto, per la persona o per la carica che ricopre. Quando al rispetto subentra – a torto o a ragione – il disprezzo, il destino di una élite politica è segnato. È possibile che qualche trasformista di professione riesca a farla franca, ma perché quel destino si compia è solo questione di tempo.


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