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Berlusconi, De Gregorio e il morto che parla

Se Silvio Berlusconi avesse voglia di giocare, nonostante tutti i guai che ha, compresa la condanna di primo grado appena subìta per la cosiddetta compravendita di senatori, dovrebbe scommettere sul 48, scegliendo possibilmente la ruota di Napoli. Dove i giudici gli hanno inflitto per corruzione tre anni di reclusione, insieme con il coimputato Walter Lavitola, e cinque d’interdizione dai pubblici uffici.

Quarantotto è il numero che la cabala attribuisce al morto che parla. Ed è proprio ad un morto comparsogli in sonno, suo padre, che l’ex senatore Sergio De Gregorio, eletto nel 2006 nelle liste di Antonio Di Pietro e nel 2008 in quelle opposte dell’allora Popolo della Libertà, ha attribuito il merito di averlo convinto a confessare ai magistrati di essere stato acquistato con tre milioni di euro da Berlusconi per passare in quegli anni dal centrosinistra al centrodestra. E di avere per questo contribuito ad affondare il secondo e ultimo governo di Romano Prodi.

Se ciò non fosse accaduto, “sarei ancora presidente del Consiglio”, ha detto lo stesso Prodi commentando la sentenza, e dopo avere accordato nei mesi scorsi al pentito De Gregorio il “perdono” richiestogli. Il che dovrebbe significare che il professore emiliano – battuto al Senato nel 2008 in una votazione di fiducia dopo avere perduto non tanto l’appoggio di De Gregorio, già passato con Berlusconi l’anno prima, quanto quello politicamente più consistente e numericamente più decisivo del dimissionario ministro della Giustizia Clemente Mastella, finito con la moglie in guai giudiziari – è incredibilmente convinto che avrebbe potuto restare a Palazzo Chigi sino alla scadenza ordinaria di quella legislatura, cioè sino al 2011. Per essere poi addirittura confermato nella legislatura successiva, cioè sino al 2016.

Le cose però sono andate assai diversamente dalla lettura del sogno di De Gregorio fatta da Prodi, che non scherza neppure lui a parlare con i morti, visto il racconto da lui fatto ai magistrati di quella seduta spiritica nella quale apprese di Aldo Moro prigioniero delle brigate rosse, nell’aprile del 1978, a Gradoli. Che era una strada di Roma, dove in effetti si nascondeva l’artefice del sequestro Moro, scambiata però dalla polizia e dagli inquirenti per una omonima località reatina, inutilmente assediata e perlustrata dalle forze dell’ordine alla ricerca di quello che si riteneva dovesse essere ormai il cadavere del presidente della dc. Ucciso invece a Roma solo il 9 maggio successivo.

Ma dal rammarico di Prodi per non essere ancora a Palazzo Chigi, ed avere invece dovuto assistere – deluso, impotente e tradito – alle elezioni anticipate del 2008, al ritorno di Berlusconi alla guida del governo, all’avvento dell’esecutivo tecnico di Mario Monti, nel 2011, alle elezioni quasi ordinarie del 2013 e alla propria bocciatura, sempre quell’anno, come candidato del Partito Democratico al Quirinale; dal rammarico di Prodi, dicevo, torniamo alla nuova condanna del leader di Forza Italia. E alla sfida lanciatagli da De Gregorio, dall’alto o dal basso dei suoi 20 mesi di carcere patteggiati come corrotto e sospesi, a rinunciare alla prescrizione. Che scatterà a novembre e vanificherà il processo, a meno che – appunto – Berlusconi non deciderà di cercare l’assoluzione nei gradi successivi, non accontentandosi di uscirne prescritto.

Sulla sentenza di condanna appena emessa dal tribunale di Napoli sarà consentito a chi scrive, per la lunga esperienza che ha di cronista e notista politico, per la conoscenza dei protagonisti o attori della vicenda, anch’essa politica, e per la rinuncia di Prodi a costituirsi nel processo come parte civile, di nutrire più di un dubbio. Ma gli sarà anche consentito di non spingersi oltre, cioè di non addentrarsi di più nelle ragioni specifiche del dissenso, per risparmiare a se stesso, al direttore e all’editore il rischio di una costosa azione civile, e forse anche penale, per diffamazione da parte dei magistrati. Fra i quali purtroppo è invalsa l’abitudine di scambiare le critiche per offese e di avviare procedimenti nei quali i giornalisti avvertono la scomodità di trovarsi svantaggiati, dovendo l’azione risarcitoria dei ricorrenti essere legittimamente giudicata da altri magistrati, sia pure di diverso distretto giudiziario. La situazione che deriva da questo sistema rende le toghe capaci più di incutere paura che di accrescere il rispetto reclamato.

Per il prestigio della magistratura non sembra obiettivamente un guadagno. E per la libera stampa, già danneggiata da una grave crisi economica, è solo l’ennesimo e forse più grave intralcio all’esercizio del diritto di critica.


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