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Il Pd è alla vigilia della scissione

Per Matteo Renzi i guai, come gli esami, non finiscono mai. La registrazione del suo colloquio col vicecomandante della Guardia di Finanza, pubblicata dal Fatto quotidiano, rischia di rendere mefitica l’aria che si respira nel Pd. Diciamoci la verità: il premier (all’epoca della telefonata solo segretario del partito) non ci fa una bella figura, quanto a stile politico e compostezza istituzionale. Non oso pensare alla reazione di Giorgio Napolitano, soprattutto quando ha saputo che veniva appellato con uno sprezzante “quello lì”.

Ma non è questo il problema principale. La verità è che il Pd non è un partito, e non ci si deve meravigliare se in un non partito l’anarchia (anche linguistica) regna sovrana. La minoranza (anzi, le minoranze) e Renzi sono sempre più ai ferri corti, e non credo che questa volta si tratti di una tempesta in un bicchier d’acqua.
Non mi riferisco tanto all’abbandono dei vari Pippo Civati, Sergio Cofferati e Stefano Fassina, fenomeno da considerare in qualche misura fisiologico quando il dissenso individuale tocca il suo acme. C’è molto di più. Il recente voto alla Camera sulla Buona scuola è la foglia di fico di un contrasto che ormai può preludere a clamorose rotture. Del resto, dall’Italicum al Jobs Act alla riforma del Senato, per Pierluigi Bersani, Gianni Cuperlo e soci non deve essere divertente sentirsi inutili fino all’irrilevanza politica.

Nel Pd di Renzi il loro destino è questo. La sinistra interna vuole più collegialità e meno monocrazia. Ma la tradizione storica di cui essa è erede ha conosciuto due capi personali – Palmiro Togliatti ed Enrico Berlinguer – che certo non comandavano meno di Renzi. Solo che entrambe le leadership erano comunque sottoposte alle regole e alla sorveglianza della gestione oligarchica del partito.

Quando ci si rifiuta di partecipare alle riunioni dei gruppi parlamentari convocate dal presidente del Consiglio, o ci si assenta sistematicamente in Parlamento quanto si tratta di approvare i provvedimenti-chiave della legislatura varati dal governo, in fondo si dichiara di non voler più accettare una leadership che sposta il baricentro del suo potere fuori dal controllo oligarchico, trasferendolo da Largo del Nazareno a Palazzo Chigi.

Tutti (per il momento) ancora lo negano, ma il rischio di una scissione a questo punto c’è. Perché, come diceva Tino Scotti, un vecchio e glorioso comico milanese, così non “dura minga”.


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