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Libia, cosa ribolle fra Italia e Tripoli

Suona come un avvertimento, ma forse è solo l’ennesimo grido di aiuto per uscire dal pantano della crisi libica in cui le opposte fazioni si sono da tempo cacciate. Dopo aver rinunciato a firmare l’intesa di pace e di riconciliazione proposta dall’Onu il 12 luglio a Skhirat, in Marocco, il Parlamento islamista di Tripoli critica la linea politica dell’Italia e propone un patto con il nostro Paese: sostegno nella liberazione dei 4 tecnici italiani della Bonatti rapiti la settimana scorsa e una vera lotta all’Isis e ai barconi, in cambio della sua identificazione come governo legittimo, al pari di quello “laico” e riconosciuto dall’Occidente rifugiatosi a Tobruk.

SCARSA COOPERAZIONE

“In questo momento non c’è cooperazione. In passato c’è stata. Abbiamo lavorato assieme per cercare di controllare gli scafisti e le bande di trafficanti di migranti verso le coste italiane. Ma ultimamente quella cooperazione si è bloccata. Il governo di Roma non riconosce quello di Tripoli, preferisce Tobruk. Inevitabilmente i nostri rapporti si sono allentati”, lamenta oggi al Corriere della Sera Khalifa al-Ghwell, originario di Misurata, nominato lo scorso aprile primo ministro del Congresso Centrale Nazionale, l’organismo politico che domina sulla regione tripolina sino al confine con la Tunisia. Poi aggiunge: se Roma avesse rapporti politici e diplomatici diretti con Tripoli, anche le ricerche per liberare i quattro sarebbero più efficaci, perché “la mancanza di riconoscimento politico limita il lavoro della vostra intelligence qui sul posto e la sua intesa con la nostra. Nel passato spesso noi ci siamo impegnati ad arrestare gli scafisti. Ma in cambio Roma ha dato nulla per aiutarci in Libia”. Un messaggio giunto senz’altro alla Farnesina, che pesa ogni mossa e continua a sostenere convintamente il lavoro dell’emissario del Palazzo di Vetro nel Paese, lo spagnolo Bernardino León.

LA CONDANNA DEL SECONDOGENITO DI GHEDDAFI

Nelle ultime ore la situazione interna si è ulteriormente deteriorata, con la notizia – diffusa da Al Arabiya e Al Jazeera – secondo la quale Saif al Islam, secondogenito di Muammar Gheddafi sarebbe stato condannato alla pena di morte dalla corte libica per fucilazione, perché ritenuto colpevole di crimini contro l’umanità in relazione alla repressione della rivolta del 2011 contro il governo del padre. Una condanna che per vie traverse tocca anche il nostro Paese, perché il figlio del rais era uno degli amministratori di parte degli 1,5 miliardi di euro in partecipazioni azionarie detenute in Italia dalla famiglia dell’ex dittatore libico: i fondi Libyan Investment Authority (Lia) e Libyan Arab Foreign Investment Company (Lafico) avevano quote in UniCredit (1,256%), Eni (1,01%), Finmeccanica (2,01%), Juventus (1,5%), Fiat (0,33%) e Fiat Industrial (0,33%), oltre che azioni privilegiate di queste due società per un controvalore, rispettivamente, di 614.358 e 876.906 euro.

LA POSIZIONE ITALIANA

Tuttavia, il groviglio geopolitico che avvolge la Libia è sempre più intricato e coinvolge l’Italia – che nel tempo ha mutato parzialmente la propria posizione – anche in modo diretto. “In Libia, le due macro-fazioni che si contendono il Paeseaveva spiegato a Formiche.net Cinzia Bianco, analista esperta di Medio Oriente e Mediterraneo per la Nato Defense College Foundation – sono sostenute da un lato da Turchia e Qatar e dall’altro da Egitto ed Emirati Arabi Uniti. I primi sostengono il vecchio parlamento, il Gnc; i secondi Tobruk, la nuova assise riconosciuta dall’Occidente. Finora l’Italia ha provato a tenere un atteggiamento equidistante, che le ha consentito di essere l’unica ambasciata “di peso” aperta fino all’ultimo nel Paese. Questa posizione, però, inizia a vacillare, anche in virtù dei sempre più fitti rapporti d’affari intessuti con Abu Dhabi e col Cairo“.

GLI INVESTIMENTI ITALO-EGIZIANI

Tra questi, ricorda Il Sole 24 Ore, si possono annoverare quelli siglati il 24 luglio dal presidente del Consiglio Matteo Renzi in un pranzo a Villa Pamphili con il suo omologo egiziano Ibrahim Mahlab. “Otto intese per un valore complessivo di 8 miliardi e 488 milioni di dollari. Gli accordi, tutti nel settore energetico, coinvolgono le italiane Eni, Edison, Technip Italia, Ansaldo Energia. Mise e Technip, in particolare, hanno firmato un’intesa che riguarda le due raffinerie di Midor (1,4 miliardi di dollari) e Assiut (1,6 miliardi di dollari). Ansaldo un accordo da 218 milioni di euro con la Egyptian Electricity Holding Company. Eni un accordo per lo sviluppo del giacimento del Delta del Nilo da 5 miliardi di dollari. Edison ha siglato un ministero del petrolio egiziano un’intesa per investimento da 250 milioni di dollari“.

L’INTESA DELL’ENI

L’accordo firmato dall’Eni, invece, prosegue Il Sole 24 Ore, “ribadisce e rafforza gli impegni presi con l’accordo quadro di marzo firmato nell’ambito dell’Egyptian Economic Development Conference di Sharm El Sheik, che a fronte di una revisione dei parametri contrattuali ed estensioni temporali di alcune concessioni, prevede investimenti complessivi stimati in circa 5 miliardi di dollari per la realizzazione nei prossimi 4 anni di progetti finalizzati allo sviluppo di 200 milioni di barili di olio e di circa 37 miliardi di metri cubi di gas”.

LA NETTEZZA DI GENTILONI

Accordi che forse, temono a Tripoli, incideranno sempre più su una linea intransigente dell’Italia nei confronti della fazione islamista, manifestata anche in dichiarazioni pubbliche. Come quella del 21 luglio scorso, quando durante una visita di León a Roma, il ministro degli Esteri italiano Gentiloni ha ricordato che “tutte le parti libiche” sono chiamate a condividere l’accordo promosso dall’Onu. Chi “si sottrarrà o lo boicotterà”, rimarcò, “sarà isolato dalla comunità internazionale, cosi come è emerso dal Consiglio europeo del 20 luglio a Bruxelles”.

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