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Così il dualismo tra Cina e Usa cambierà la geopolitica mondiale

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Proviamo a verificare qui, ed è cosa rara nel lavoro di analisi di intelligence e nel dibattito geopolitico, soprattutto in Italia, una serie di linee di tendenza che, a nostro avviso, ma con qualche fondamento razionale, determineranno il nostro futuro a medio-lungo termine.

In prima battuta, gli USA stanno allontanandosi strategicamente dal quadrante del Grande Medio Oriente, sia per motivi di inevitabile overstretching militare, alla lunga insostenibile anche per Washington, sia per una diversa ratio geoeconomica tra petrolio, gas naturale e potere di intermediazione statunitense in termini, come ha annunciato il Presidente Barack Obama, di partnership globale.
Chiunque sostituirà Barack Obama, gli USA non faranno più i portatori d’acqua strategica per nessun alleato, né europeo né mediorientale. Faranno, d’ora in poi, i loro semplici interessi, percepiti secondo il paradigma storico della geopolitica nordamericana.

Anche qui, se la produzione shale nordamericana aumenta troppo rapidamente di quantità, l’abbassamento dei prezzi energetici globali potrebbe indebolire l’Arabia Saudita e tutta l’OPEC sunnita, lasciando con un mercato tutto volto ad Est (Cina, Asia Centrale, India, Pakistan) l’Iran e abbattendo il potere di contrattazione e di sviluppo della Federazione Russa, che non potrebbe utilizzare in tempo i capitali del suo mercato petrogaziero in funzione di uno sviluppo economico non più oil-related.
Finirà, prima di quanto non si pensi, il signoraggio del dollaro Usa su tutto il mercato petrolifero, mentre anche l’OPEC, se vorrà rimanere unita, procederà alla costituzione di un “paniere” di monete globali che sostituirà il biglietto verde, secondo la visione ormai quasi decennale della finanza globale cinese.
Dove non arriva più il dollaro non arriveranno più né le basi, né i droni né gli M-12 delle Forze Armate USA.

Il che, peraltro, per Mosca, vorrebbe dire, nella crisi demografica e di crony capitalism che già la attraversa, o ritentare la conquista del suo estero vicino europeo, oppure mostrare un crollo strategico che porterebbe con sé la destabilizzazione di tutta l’area dello Shangai Cooperation Organization.
La Federazione Russa non accetta la riedizione dello scontro tradizionale tra occidente e Oriente ai suoi confini, e farà di tutto per creare uno squilibrio strategico tra Europa orientale e Forze russe tale da dissuadere duramente la NATO e da costringere l’Alleanza, o i suoi singoli membri, ad un rapporto politico-militare bilaterale.
Forse a questo sfuggirà la Polonia, asse con la Romania della nuova proiezione di potenza USA in Europa, che trascura i Paesi mediterranei NATO e crea una connessione bilaterale con la sola Germania.

Ma non è detto che Varsavia voglia giocare fino in fondo la carta ucraina o quella dei suoi vecchi confini con la Russia, perché in quel modo Mosca potrebbe creare un coupling militare e strategico pesantissimo tra Europa mediterranea e l’area del vecchio Patto di Varsavia.
Gli USA, ha detto il Presidente, ci metteranno 5 trilioni di Usd nei futuri programmi di sviluppo, il che non è certo poco, ma vogliono, d’ora in poi, una strategia partecipata con l’EU e gli altri Paesi “amici” in tutto l’arco di crisi che va dal deserto marocchino all’Algeria fino ai confini tra Iran e Asia Centrale.
Il problema è che il resto della NATO non ha né i fondi, né la omogenea volontà politica e, nemmeno, il potere militare per collaborare in modo razionale con gli Stati Uniti, che vorrebbero un Forum for the Future nell’area del Greater Middle East basato sul rilancio economico, sulla espansione della democrazia parlamentare e sul miglioramento scolare e sanitario della popolazione.

La strategia globale non è attività da anime belle, ma sembra che le dottrine recenti della democratizzazione globale, soprattutto negli USA e in EU, creino senza volerlo l’occasione di una espulsione totale dell’influenza occidentale, per la prima volta nella Storia, da tutto il Grande Medio Oriente.
Ma se quest’area non trova un centro di gravità esterno credibile e forte (e sarà con ogni probabilità l’area SCO) l’unico che vince, sul campo, sarà il jihad.
Che tenderà a frantumarsi fino a che una organizzazione, probabilmente non territoriale, come per esempio i Fratelli Musulmani, non ricreerà i tempi e i modi di una conquista dell’Europa da parte dell’Islam, e della penetrazione silente e distruttiva del jihad in tutte le sue forme: della spada, permanente, “della parola”, della finale sottomissione.

Facile a dirsi, difficile a farsi, la democratizzazione del globo: se l’idea di Washington di mettere in piedi una Broader Middle East and North Africa Private Enterprise Development Facility andranno in porto, ciò significherà, con ogni evidenza, un ridisegno anche violento dei potenziali strategici nell’area.
Il Regno wahabita degli Al Saud potrebbe frazionarsi, in un contesto di evoluzione economica rapida e diffusa, in un’area meridionale, tra l’Hadramaut di antica radice binladiana e lo Yemen ormai area di penetrazione iraniana, e un grande settore del centro Nord omogeneo al polo di attrazione sirio-iracheno, per quel che rimane della Siria.
L’Isis vive delle ambiguità strategiche della Turchia, anche se non sappiamo ancora quanto l’accordo tra Ankara e Washington, di questi giorni, riuscirà a sgombrare l’area tra Aleppo e l’Eufrate dalle armate del califfo Al-Baghdadi.
Piuttosto che aiutare i filo-iraniani di Damasco, Erdogan sosterrebbe apertamente il Califfo Al-Baghdadi.

Lo Stato Islamico crea una serie di corridoi che rendono viabile il Medio Oriente, permette la distruzione del centro di gravità storico dell’area, l’Iraq, che è il punto dal quale si distribuiscono tutti i potenziali strategici del Grande medio Oriente, e che gli USA hanno pericolosamente destabilizzato, chiude l’area di maggiore espansione agli odiati sciiti duodecimani al potere a Teheran, che i predicatori sunniti ritengono “peggio degli Ebrei”.
La ormai nota separazione geopolitica, culturale, religiosa, tra shi’a e sunniti, se non ci saranno potenziali credibili della NATO, degli USA o comunque occidentali nell’area, non porterà alla distruzione di uno dei contendenti muhammadici, ma nostra e solo nostra.

L’UE e gli stessi USA saranno regionalizzati, chiusi da aree geopolitiche avversarie, pericolose e ormai attirate non dalle vecchie rive atlantiche o mediterranee, ma dal grande universo di terra dello Hearthland sino-russo-indiano.
L’Islam detto impropriamente “radicale” è pensato per penetrare pacificamente nelle aree dove è ancora debole (l’Europa nordoccidentale) diventare un attore primario nell’Islam mediterraneo, e soprattutto nel Maghreb, diventare egemone nel suo centro di gravità, ai bordi dell’area panturanica e sciita: l’Iraq.
La diversa graduazione della strategia globale dell’Islam jihadista sarà la vera variabile che misurerà i successi e i fallimenti dello SCO, della NATO, dei residui influssi USA, dei nuovi attori regionali.

Erdogan vuole prendersi quanto sembra spettargli della Siria; e vuole quindi eliminare ogni influenza curda nella zona e nell’Anatolia, vuole il suo pezzo sunnita di Iraq, che lo porterà a ruoli imperiali e vuole poi costruire, a partire dai suoi confini orientali, la grande alleanza panturanica che andrebbe dai territori alevi del centro anatolico fino ai confini della Cina, con lo Xinjiang islamico e turkmeno.
L’espansione di Ankara vuol dire il suo abbandono de facto dell’Alleanza Atlantica, la destabilizzazione finale del Fianco Sud terrestre della NATO verso il Medio Oriente, la riduzione dell’esperienza atlantica a una alleanza militare e strategica secondaria, dati i volumi comparati del sistema atlantico in rapporto con quelli della Federazione Russa e della Cina, che saranno sempre più interoperabili.

Pechino, che sta ristrutturando la sua crescita economica e mostra posture sempre più aggressive nei confronti del debito pubblico USA, al quale sta stabilmente sostituendo l’oro e le altre materie prime, vuole un centro di gravità strategico lontano dall’Europa, futuro partner primario ma piccolo, oltre la fase “americana” e bilaterale del suo sviluppo (un marxista la chiamerebbe correttamente “fase di accumulazione primitiva”) e Pechino vuole soprattutto una zona di pieno e assoluto controllo strategico.
La Cina non vuole una collaborazione globale con Washington, vuole oggi un dominio (insieme agli altri dello SCO) in tutta l’Asia Centrale, foriero di un pieno controllo dei Mari Regionali asiatici fino almeno alla metà dell’Oceano Pacifico.
Pechino ha già spremuto quanto gli necessitava dagli USA, ora la Cina opererà da sola nello Hearthland centrale, quello che, secondo il geopolitico britannico dona “il dominio mondiale”.

Né Mosca, né Pechino, né, per altri versi, i primari Paesi detti BRICS vogliono niente di meno che il potere globale e, di converso, la regionalizzazione dipendente degli USA e della stessa Europa occidentale, che va verso una accettazione dei nuovi rapporti di forza in cambio, lo vedremo presto, di una entrata marginale nel sistema economico dello Hearthland.
Un sistema che attirerà presto tutto il Grande Medio Oriente: la Turchia, già “osservatrice” SCO, l’Iran, che utilizzerà il suo potenziale nucleare per avere un trattamento di favore geoeconomico nell’Asia Centrale, l’India, che giocherà nel suo Nord le carte del suo sviluppo e della sua proiezione di potenza, lasciando i mari meridionali ad una alleanza con la Cina, nonché le nuove repubbliche centroasiatiche ex-sovietiche, a cui lo SCO non chiederà la carta d’identità democratica e pluralista.
Condizione primaria: la liberazione del territorio afghano da parte delle potenze non-islamiche.

L’Afghanistan, “cimitero degli Imperi”, sarà sia il polmone strategico del Pakistan, che è il punto di riferimento ad Est dell’Arabia Saudita e un pezzo importante della “collana di perle” cinese, sia il grande reservoir delle materie prime, dell’acqua e delle linee di comunicazione dello SCO, di cui diverrà, per così dire, “Il Lussemburgo”.
Andremo quindi, nei prossimi anni, ad una sorta di “rivincita di Mackinder”: il centro della potenza globale ritornerà ad essere lo Hearthland, che permette il dominio dei “mari mondiali”, mentre la penisola eurasiatica diverrà quello che è già dal punto di vista geografico: un’appendice della grande pianura centrale asiatica.
Gli USA scopriranno la democratizzazione egemone dell’Africa: è lì che opereranno il condizionamento remoto dell’espansione cinese e russa in tutto il continente Nero, che sarà l’area attraverso la quale Washington potrà, se riuscirà a farlo, contrastare e creare il contrappeso dell’area SCO-Hearthland centroasiatico.

Sarà quindi l’Africa, a parte il jihad, un sistema di squilibri dove le guerre, i contrasti strategici, gli interessi economici, finanziari e tecnologici saranno gestiti, da USA, Russia e Cina, attraverso i loro proxy.
Israele avrà la possibilità di gestire, se stabilizza credibilmente l’area dei Territori dell’Autorità Palestinese, tutto il Sud del Medio Oriente, dalla Giordania fino alle aree non sciite del Libano, a patto che, naturalmente, controlli con estrema attenzione i due choke point chiave: le alture del Golan e i passaggi verso il Sinai.
Se Gerusalemme giocherà bene le sue carte future, si potrebbe immaginare una serie di alleanze de facto, ma non superficiali, tra lo Stato Ebraico, l’Egitto, alcune zone del Corno d’Africa, le aree orientali dell’Africa Centrale fino al Sudafrica, con evidenti effetti nella global strategy dello Stato di Israele.



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