Riceviamo e volentieri pubblichiamo
I ministri Paolo Gentiloni (degli Esteri) e Federica Guidi (Sviluppo Economico) si recano nella Repubblica Islamica dell’Iran martedì 4 Agosto 2015.
Lo stesso termine “Iran”, peraltro, fu caldeggiato, al posto del più corretto “Persia”, da Reza Shah nel 1935, per sostenere l’idea del suo paese come origine del mondo “ariano”, ossia, secondo le strane etimologie che circolavano all’epoca, “di nobili origini”.
Siamo ancora all’ossessione recente per l’economia della nostra diplomazia, che ha perfino trasformato uno straordinario vivaio di pensiero strategico come i corsi dell’Istituto Diplomatico in una comune scuola di management, come se chi rappresenta in toto un Paese come il nostro fosse una sorta di commesso viaggiatore delle imprese nazionali.
Non si fa così. È la politica nazionale credibile, e anche autorevole e talvolta non aliena da colpi di forza, che crea fiducia, non lo stile spesso troppo low profile della nostra vendita televisiva globale e pressante.
Il che va sempre fatta, beninteso, ovvero la vendita, ma non esaurisce nemmeno per un attimo la linea politica e strategica di una nazione come l’Italia, che non è un supermarket.
Viene in mente quando, durante la visita in Cina del presidente Carlo Azeglio Ciampi, il premier tedesco arrivò in un giorno a Pechino e si assicurò, in poche ore, l’egemonia nel mercato automobilistico cinese.
Secondo la Sace, la fine delle sanzioni potrebbe portare a un aumento dell’interscambio nei prossimi tre anni di almeno tre miliardi di euro.
Comunque anche nello scorso anno i rapporti tra Italia e Iran valevano almeno 1100 milioni di euro, con un aumento di quasi il 10% rispetto all’anno precedente.
La classe dirigente di Teheran vuole puntare sull’auto, sul gas&petroli, ma qui dovremo analizzare la tenuta e le riserve dello stato sciita, e sui macchinari e i beni di consumo secondari.
Sempre secondo le autorità iraniane, senza le sanzioni le esportazioni di greggio potrebbero arrivare a 2,3 barili/giorno, di contro agli attuali 1,2 milioni.
L’Iran è, oggi, tra i produttori di energia, tra l’India (settima) e l’Australia (nona) e, con le sanzioni, almeno un milione di barili/giorno di Teheran è stato sostituito, dai compratori, con petrolio proveniente da altri produttori Opec, con le conseguenze geopolitiche e militari che osserviamo tutti i giorni.
Se invece le sanzioni, come dopo l’accordo sul nucleare tra il governo sciita e il P5+1, vengono progressivamente tolte, allora l’Iran potrebbe arrivare al secondo posto, o addirittura al primo, tra gli esportatori riuniti nel cartello di Vienna.
Gli idrocarburi di Teheran sono stati sostituiti parzialmente dalla Cina con petroli iracheni, angolani e nigeriani mentre la Ue ha comprato di più dall’Arabia Saudita e dalla Nigeria, dal Sud Africa e, per quote minori, dall’Angola.
Ecco come le sanzioni disegnano, per breve tempo, la carta dei vincitori e dei vinti della globalizzazione.
Tornando alla compagnia di giro di Gentiloni e Guidi, che aspira a toccare di nuovo il record dell’interscambio Iran-Italia di 7 miliardi, nel 2011, la delegazione è ben rappresentata: Finmeccanica, Ansaldo Energia, Cdp (perché, si vuole vendere quote della Cassa agli iraniani del fondo sovrano National Development Fund of Iran, che ha in cassa circa 55 miliardi di dollari, quasi pari ai 60 che saranno l’intero bottino della fine delle sanzioni?) e poi Sace, Fincantieri, Tecnimont, Fondo Strategico Italiano ed altri privati minori.
Bene, ma sappiamo bene cosa vuol dire l’abbandono, dagli italiani così festosamente e ingenuamente sostenuto, delle sanzioni all’Iran?
I conti iraniani congelati all’estero valgono, secondo le migliori analisi, 120 miliardi di dollari.
Il totale degli scambi economici di Teheran, nel 2014, valeva 160 miliardi di dollari.
Dal momento in cui il Joint Plan of Action, il nome esatto dell’accordo tra il P5+1 e Teheran, è stato implementato, la Banca Centrale Iraniana ha reimportato in patria oltre 25 miliardi di fondi o oro che, dicono i tecnici finanziari del governo iraniano, sono stati usati per stabilizzare il tasso di cambio interno.
Ovviamente, i fondi nuovi in fase di rientro saranno utilizzati per le importazioni.
Stabilizzare il mercato interno è sempre una buona cosa, dal punto di vista politico, mentre alcuni fondi congelati in banche estere (è il caso delle banche britanniche) sono stati finora usati per acquisire beni sanitari di cui il mercato iraniano è strutturalmente carente.
La base industriale iraniana è largamente sottoutilizzata, ma ha bisogno di capitali rilevanti per il suo aggiornamento tecnologico.
Ma il problema è che è proprio l’industria di base di Teheran, quella petrogaziera, che ha bisogno urgentissimo di investimenti per gli aggiornamenti tecnologici e, sospettiamo, per utilizzare al meglio pozzi e giacimenti ormai molto, troppo “maturi”.
Si tratta, secondo gli analisti del settore, di 230 miliardi di dollari da spendere in un periodo di massimo cinque anni, pena la sparizione dell’Iran dal novero dei grandi estrattori/produttori.
Il Fondo di Stabilizzazione per i Petroli, sempre un fondo sovrano di Teheran, è anch’esso un asset che potrebbe acquisire i nuovi redditi provenienti dal petrolio ormai libero da embargo e, visto che raccoglie i sovraprofitti rispetto alle tariffe Opec, fare anch’esso opera di economia di sostituzione finanziaria: i capitali rientrano, vengono tesaurizzati (a parte l’elevatissima corruzione) e il lavoro di investimento e tecnologico viene fatto fare, con i rischi connessi, elevatissimi, a quegli ingenui di occidentali, che ci metteranno il rischio di impresa e ci regaleranno le loro tecnologie, senza sparare un sol colpo.
Lo faceva anche l’Unione Sovietica, nei suoi momenti, programmatissimi, di “disgelo”.
Mi viene qui in mente Kim Il-sung, quando mi diceva che, da ottimo conoscitore dell’universo iraniano, bisognava stare attenti a trattare con gli Imam sciiti.
Naturalmente, e qui sta la ratio strategica e geopolitica dell’Iran attuale, che non vuole spendere per il suo petrolio diminuendo la sua presenza militare nel Golfo e altrove, è sempre meglio farsi fare gli investimenti da fuori.
Tanto investiremo in Iran e nell’aggiornamento della sua economia, tanto permetteremo a Teheran il sostegno alle sue attività militari in Libano, Iraq, Siria, Afghanistan, Azerbaigian, Oman, Bahrein, Arabia Saudita, Pakistan e perfino in India, dove l’Iran sostiene la minoranza sciita all’interno della minoranza islamica sunnita.
Ci interessa? Vogliamo credere che un trade off strategico sia sempre meno importante di uno economico, dove peraltro stiamo già sopportando la concorrenza post-accordo sul nucleare della Germania e, tra poco, della Gran Bretagna, che tenteranno di tutto per farci fuori dal mercato iraniano?
Le pene di morte comminate in Iran (almeno 50 in quest’anno, fino ad ora) aumentano vertiginosamente, malgrado la nuova immagine del governo sciita, mentre la repressione sulla libertà di associazione e di stampa aumenta anch’essa.
Tanto ora ci sono gli ingenui occidentali a fare da copertura.
E tanto più lo saranno, dopo che saranno integrati in una command economy militare che non possiamo determinare, a fare da scudi umani di azioni che, prevedibilmente, l’Iran metterà in atto contro Israele, recentemente nominato da Rohani come “se Israele attacca, finirà sulla sedia a rotelle”, e comunque, Hassan Rouhani, come peraltro la guida suprema Ali Khamenei, accetta l’accordo se e solo se gli “altri” accetteranno le condizioni iraniane.
Che sono già, lo abbiamo visto, condizioni capestro, uno strategico quia sum leo.
Saremo, quindi, con ogni probabilità, gli scudi umani dell’Iran sciita sia contro lo Stato Ebraico sia nelle sue azioni in Libano e in Iraq, dove la pressione delle nostre aziende operanti in Iran ci costringerà ad un accordo di fatto con il regime di Teheran.
Il tutto acquisendo tutto il rischio di impresa, senza supporto reale della anche iraniane, senza contare il costo della corruzione (in media il 32%) e infine l’incertezza di un mercato in cui il potere politico può far fuori una azienda nello spazio di un mattino, o forse meno ancora.
Il presidente americano Barack Obama ha sostenuto che le ispezioni Iaea saranno operative “dove necessario, quando necessario”, potendo l’agenzia viennese verificare ogni tipo di suspicious location.
Non è così, occorre il permesso, scritto nell’accordo stesso, del Paese ospitante, l’Iran. Inoltre, il regime del Joint Plan of Action non è, esplicitamente, permanente. Se Obama vuole lavarsi le mani del Grande Medio Oriente va bene, ma non dica cose inesatte.
Peraltro, immediatamente dopo la chiusura delle trattative per il Joint Plan of Action, il ministro della Difesa di Teheran ha ripetutamente garantito che i piani missilistici balistici per i lanci intercontinentali sarebbero andati tranquillamente avanti, dato che riguardano solamente “la sicurezza nazionale iraniana”.
Altra mannaia su ogni Paese che creasse problemi, non solo strategici, ma anche solo economici, al regime sciita.
Lo si vuol comprendere, fino a che siamo in tempo?
D’altra parte, la lama del manico del coltello del Jpoa si è già rovesciata grazie alla assoluta incompetenza dei nostri “mediatori” con Teheran.
Tutti i leader sciti, infatti, dichiarano che, se le sanzioni economiche non saranno subito e integralmente tolte, l’Iran si sentirà libero da ogni obbligo internazionale per quanto riguarda il suo arsenale nucleare e missilistico, e questo, anche in politica estera, si chiama ricatto. Quando si trattano questioni delicate, lo dico agli ospiti italiani del governo iraniano, bisogna stare molto attenti e valutare ogni e qualsiasi tipo di ricatto, condizionamento, pressione, manipolazione che uno Stato, anche in una semplice relazione economica bilaterale, può mettere in campo.