C’è posto per tutti nella sontuosa carrozza funebre affittata dai parenti del “Re di Roma” Vittorio Casamonica per i suoi funerali, ed entrata ormai nelle immagini più rappresentative della Capitale d’Italia: con il Colosseo, il Cupolone di San Pietro, i Fori, il Campidoglio, la Fontana di Trevi, la Barcaccia di Piazza di Spagna, la scalinata di Trinità dei Monti.
Da quella carrozza trainata da sei cavalli neri non avevano neppure finito di scaricare il feretro di Casamonica per la sepoltura e già cominciavano a salirvi altri con le loro gambe, accomunati da una curiosa vocazione suicida.
Vi è salito innanzitutto lo Stato in tutte le sue articolazioni, centrali e locali, con tentativi penosi di scaricare le une sulle altre le responsabilità di quelli che il prefetto di Roma ha chiamato “sottovalutazioni, non connivenze”.
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Fra le articolazioni dello Stato non è mancata la magistratura. Che ha proceduto, è vero, a tutte le comunicazioni di legge e di rito che avrebbero ben potuto allertare gli organi di Polizia sul tipo di evento che si stava organizzando. Ma con i suoi permessi a parteciparvi accordati ad alcuni familiari del morto detenuti a domicilio ha rivelato una pietà inedita, per quanto lodevole sul piano astratto.
E’ stata una pietà inedita, per esempio, rispetto a un po’ di casi che mi tornano alla mente: per primo, in ordine di tempo, il permesso negato al povero Gabriele Cagliari, o concesso a condizioni così umilianti da essere rifiutate, per partecipare ai funerali della nuora. Poi, il permesso negato a Paolo Pillitteri, ex sindaco di Milano, a partecipare ai funerali tunisini di suo cognato Bettino Craxi. E, più recentemente, i rifiuti opposti alla richiesta di Salvatore Cuffaro di accorrere al capezzale della madre prossima alla morte: rifiuti per la rimozione dei quali l’avvocato del detenuto ex governatore della Sicilia, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, dovette rivolgersi ai giornalisti perché il caso fosse conosciuto e si potessero smuovere le acque.
Meglio tardi che mai, per carità, in teoria – ripeto – anche per i familiari di Casamonica, ma si spera che qualche dubbio sui criteri d’esercizio della pietà negli uffici giudiziari si possa esprimere senza incorrere nella contestazione del reato di diffamazione. Altrimenti, con quel che possono costare queste cause a chi scrive, al direttore e all’editore, ritiro tutto e chiedo scusa.
In carrozza è salita e ci è rimasta per un bel po’ di giorni anche la Santa Sede, fino a quando un articolo dell’Osservatore Romano non ha espresso totale disapprovazione per l’accaduto, smentendo così il parroco della chiesa dei funerali. Che aveva rivendicato, di fronte alle prime polemiche, il merito di avere onorato un generoso credente, per quanto i familiari se la fossero cavata con un’offerta di soli 50 euro alla parrocchia per funerali costati chissà quante volte tanto per le parti esterne al tempio.
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Con quel parroco si sono in qualche modo ritrovati nella carrozza laici di vantato spessore che hanno scritto, in polemica con lo scandalo gridato da più parti, il diritto di ciascuno di scegliere per il proprio congiunto il tipo di funerale gradito. Qualcuno, di cui non faccio il nome solo per carità professionale, è arrivato a scrivere del “presunto boss” Casamonica, risultando a suo carico solo la modesta condanna a un anno di carcere, chissà se scontato, per truffa in ordine all’acquisto di una Ferrari. Ed essendo considerato il suo clan tanto affidabile – aggiungo io – da meritarsi l’affitto agevolato di oltre 30 appartamenti del Comune di Roma.
Si è addirittura contestato il diritto di scandalizzarsi per i funerali di Casamonica a quanti parteciparono due anni fa alle esequie del senatore a vita Giulio Andreotti, meno presunto malavitoso del morto al Tuscolano perché “prescritto” come “mafioso” per fatti e frequentazioni sino al 1980. Ma assolto con formula piena per i fatti successivi contestatigli con un processo di cui penso che valga la pena ricordare quello che ha ammesso e rivelato più volte l’ex parlamentare Giovanni Pellegrino. Il quale lesse bene nel 1993 le carte giudiziarie come presidente della giunta delle immunità del Senato facendosi l’idea che non ci fosse un sufficiente impianto d’accusa.
Il processo poi fu autorizzato lo stesso, in un clima tale, mediatamente e politicamente, che lo stesso Andreotti, oltre allo stesso Pellegrino, partecipò alla votazione palese in aula per associarsi al sì.