L’autunno pone ai sindacati non poche sfide, che possono anche corrispondere ad altrettante opportunità. Continuano a farsi sentire gli effetti più sgraditi, non sempre prevedibili, della globalizzazione che trasferisce in tempo reale le situazioni di difficoltà di una economia sulle altre. A questo si aggiungono le crisi politiche che non si limitano più all’area medio-orientale o alla costa sud del mediterraneo. Il caso più preoccupante è quello cinese perché la crisi finanziaria potrebbe mettere in discussione il ruolo egemonico del Partito Comunista e avviare una fase di cambiamenti (o disgregazioni?) a livello mondiale non facili da governare.
Il mondo del lavoro subisce crisi aziendali che richiedono soluzioni più dolorose in termini non solo di flessibilità delle prestazioni ma anche di riduzione degli organici e, come sta avvenendo per la Bridgestone di Bari, delle retribuzioni reali. L’atteggiamento delle imprese è molto determinato, spesso inizia comunicando la chiusura di interi stabilimenti anche se poi accetta di trattare a livello di governo. Questo modello negli ultimi tempi ha funzionato in casi importanti, come Whirlpool, Electrolux e la stessa Bridgestone con risultati riconosciuti come molto positivi.
Ma gli esami non finiscono mai e la contrattazione per il ricupero di competitività richiede una permanente disponibilità a far fronte in tempi rapidi alle richieste di mercato. Nella migliore delle ipotesi si discute di straordinari e di fine settimana lavorativi, nelle peggiori di riduzione di occupazione (spesso attraverso la cassa integrazione o il non rinnovo del turn over) o addirittura dei salari. Quest’ultima ipotesi pone a dura prova la responsabilità sindacale perché c’è un abisso tra lavorare a ferragosto con una forte maggiorazione, essere in cassa integrazione o perdere il 15% della busta paga lavorando come prima.
Ormai la “reformatio in peius” di alcune condizioni di lavoro è diventata un fattore di rischio strutturale nel rapporto di lavoro. Il sindacalismo radicale americano lo aveva definito spregiativamente negli anni ’80 “buy back deal”, accordo di restituzione ma in realtà, attraverso una filosofia intelligente di scambio con le imprese, è diventato un arma efficace nelle mani delle “unions”.
Alle difficoltà che il sindacato incontra nella gestione delle crisi e nella individuazione del nuovo modello di contrattazione si affiancano le scelte che dovranno essere compiute in materia di rappresentanza, di esercizio del diritto di sciopero e di partecipazione alla gestione delle imprese che costituiscono un adempimento costituzionale.
Queste ultime materie sono anche nelle mani del Parlamento e del Governo che, dopo numerosi annunci, non potrà non intervenire in assenza di concrete proposte sindacali. Il maggior pericolo che i sindacati corrono sui due fronti, quello “contrattuale” e quello “istituzionale” è di rinviare troppo nel tempo decisioni che dovrebbero essere ormai mature, come privilegiare il contratto di lavoro aziendale anche in surroga a quello nazionale e una regola (che dovrebbe diventare legge) che sancisca il diritto di esercitare democraticamente e in forma collettiva il diritto di sciopero, a partire da tutti i servizi pubblici.
C’è bisogno di una Bad Godesberg (non impossibile) per i sindacati italiani che potrebbe diventare utile per realizzare un nuovo modello unitario. In caso contrario dovranno affrontare il rischio di una lunga e perigliosa navigazione tra Scilla e Cariddi, da una parte facendo fronte solo in termini emergenziali alle difficoltà dell’economia e proseguendo dall’altra le polemiche sterili contro il governo Renzi.