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Perché le primarie del Pd a Milano sono tanto complicate

Dopo l’annuncio della rinuncia alla candidatura da parte di Giuliano Pisapia, che sembra  confermata nonostante le pressioni per fargli cambiare idea, la vicenda delle primarie si sta aggrovigliando. In realtà è una questione seria perché ne va del futuro, non solo a Milano,  del PD che rischia la messa in discussione della propria autonomia decisionale.

Il modello primarie (importato forse  troppo semplicisticamente da un contesto culturale e politico molto diverso come quello degli Stati Uniti) è stato adottato nel nostro Paese con alterne fortune. Ma non vi è dubbio che ha rappresentato un elemento di novità su cui lo stesso Pd, così come il movimento di Grillo, hanno costituito parte delle proprie fortune.

Ma i nodi vengono oggi al pettine per il PD: la necessità di dare una più precisa identità di governo al partito per consolidare i brillanti risultati elettorali impone di costruire un gruppo dirigente di partito e di amministratori che sia tendenzialmente omogeneo e che si riconosca nella nuova leadership.

Naturalmente in un grande partito, come insegnano le esperienze europee, convivono una maggioranza e una minoranza, ma è il partito in quanto tale a scegliere i gruppi dirigenti e le candidature più importanti.

Il sistema delle primarie può rivolgersi, oltre che agli iscritti, anche ai simpatizzanti di una forza politica ma in questo caso si tratterebbe di una sorta di “congresso allargato” organizzato da una partito nella propria autonomia. Ma, è questa la criticità, le primarie di cui si discute oggi sono aperte a candidature libere espresse dalle singole forze politiche o da aggregazioni di cittadini, con la partecipazione di un largo schieramento, che per semplicità definiamo di “centro-sinistra”, con tutti i loro militanti e e simpatizzanti.

In altri termini, senza sovrastimare il rischio di “manipolazioni”, il partito più forte cede la propria sovranità correndo il rischio di non far eleggere il proprio candidato, o peggio di far eleggere con i voti degli alleati (locali) un rappresentante della minoranza interna. E’ vero che tra alleati accordi  sono sempre possibili ma il guaio è che i partiti e i “movimenti” che compongono la maggioranza di Pisapia (che lavora per garantire la continuità della formula) non sono tutti  proprio  “fedeli alleati “di Renzi in Parlamento.

A questo punto non è  certo impossibile che si trovi una candidatura condivisa, un politico o un professionista, ma è facile comprendere che il PD renziano  non rinuncerà facilmente, se si conferma l’uscita di Pisapia, ad occupare la carica di Sindaco.

D’altra parte non sembra  avere una grande fretta nella scelta del candidato sindaco neppure il centro-destra che, anche senza le primarie e a dispetto degli annunci di grandi alleanze, non pare proprio in grado  di offrire soluzioni concrete  che trovino l’accordo dei partiti interessati.



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