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Jobs Act, ecco vincitori e vinti

Massimo d'alema

Con il varo degli ultimi decreti legislativi si conclude, almeno per quanto riguarda l’aspetto dell’impianto normativo, il processo di revisione del diritto del lavoro contenuto nel jobs act ed indicato, in termini di principi e di criteri generali, nella legge delega n. 183/2014 (il destino, forse con un pizzico di malizia, ha voluto che quel provvedimento fosse contrassegnato con il medesimo numero apposto al c.d. Collegato lavoro che costituì, nel 2010, il principale intervento del Governo Berlusconi in materia di lavoro nella passata legislatura).

L’itinerario necessario per la decretazione (distribuito nell’arco di 6 mesi) ha consentito ad alcune misure (come quella, certamente più significativa, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio) di essere già operanti e valutabili (in modo non sempre condiviso) per gli effetti che esse hanno prodotto nel mercato del lavoro. A tal proposito, per la prima volta, le trombe dell’Istat hanno suonato una musica somigliante a quella delle campane del Governo.

I dati sull’occupazione del secondo trimestre dell’anno in corso presentano alcuni dati positivi (che tuttavia si ridimensionano se vengono destagionalizzati): 180mila occupati in più (+0,8% su base annua) di cui 120mila nel Sud (+2,1%) soprattutto nel terziario (ricordate le lamentazioni di quell’ente inutile di nome Svimez?). Crescono – alla faccia di chi vorrebbe anticipare l’età di pensionamento o istituire un assegno assistenziale per gli ultracinquantacinquenni disoccupati – le coorti degli ultracinquantenni (quasi del 6%); i nuovi occupati italiani (+130mila) sono in numero maggiore di quelli stranieri (+ 50mila), una componente che ha riscontrato un trend costantemente positivo anche nei periodi più foschi della crisi. Mentre l’occupazione nell’industria – solitamente altalenante – sembra stabilizzarsi, dopo ben 19 trimestri negativi tornano ad aumentare gli occupati nelle costruzioni (+2,3% e + 34mila unità).

Come nei trimestri precedenti, si ridimensionano le collaborazioni, nell’ambito di una relativa stabilizzazione dei rapporti di lavoro. Benché le nuove misure economiche (la decontribuzione) e normative (il contratto a tutele crescenti) abbiano favorito le assunzioni a tempo indeterminato (+0,7% e + 106mila unità su base annua), le aziende non rinunciano ad avvalersi del ben più oneroso contratto a tempo determinato (+77mila unità e +3,3%). I dati sull’occupazione (sono più controversi quelli sulla disoccupazione) trovano riscontro nel clima di maggior ottimismo, anche da parte di istituzioni internazionali, riguardante la crescita del Pil per l’anno in corso.

Ma altre ombre si addensano all’orizzonte. E’ stato determinante il contributo del bonus per le assunzioni a tempo indeterminato contenuto nella legge di stabilità; ora, però, si temono problemi di copertura già nel 2015, mentre sembra ormai sicuro che quelle stesse agevolazioni non saranno confermate per gli assunti nel 2016. Il quadro di finanza pubblica resta incerto, soprattutto se si confrontano gli impegni che gravano sul Governo (il rispetto dei parametri, la neutralizzazione delle clausole di garanzia) con le promesse fatte (la riduzione delle tasse, il rinnovo dei contratti pubblici, per non parlare del ‘’vaso di Pandora’’ delle pensioni): operazioni da finanziare col solito deficit spending e, quindi, con l’aumento del debito. Sullo scenario internazionale, poi, non sono ancora chiare le conseguenze del rallentamento dell’economia cinese.

L’Unione europea ha già battuto più di un colpo, a cui il Governo risponde sollecitando, nell’opinione pubblica, una sorta di “nazionalismo immobiliare”, allo scopo di difendere quell’idea balzana di abolire, in via prioritaria, la tassazione sulla prima casa. Se è presto per tirare delle somme minimamente consolidate sugli effetti del jobs act (i quali camminano necessariamente sul tapis roulant dell’economia), è possibile, invece, cimentarsi con una considerazione di carattere politico. Si direbbe che il premier Renzi e il suo staff (il ministro del Lavoro ha fatto da comparsa) abbiano voluto abbattere, uno dopo l’altro, tutti i santuari della sinistra.

E’ toccato dapprima alla c.d. tutela reale contro il licenziamento illegittimo. Nella nuova disciplina la reintegra nel posto di lavoro, da sanzione in precedenza normale, si trasforma in un caso eccezionale. Il giudice non ha più la possibilità di valutare – sul piano giuridico – la corretta proporzione tra la mancanza del lavoratore e la sanzione disciplinare, mentre – sul versante economico – non può stabilire, in maniera discrezionale, l’ammontare della indennità risarcitoria. E’ tenuto a compiere una semplice moltiplicazione tra il numero degli anni di servizio e quello delle mensilità di retribuzione (entro una soglia minima ed un tetto massimo) dovute per ciascun anno.

Viene radicalmente modificato l’art.2103 del codice civile che imprigionava lo jus variandi del datore all’interno del vincolo dell’equivalenze delle mansioni. Ora, il demansionamento diventa possibile ben oltre quanto aveva già consentito una giurisprudenza consolidata. Per quanto riguarda gli ammortizzatori sociali è prevalente la spinta alla razionalizzazione rispetto a quella dell’estensione a nuovi soggetti sociali (che resta confinata nell’ambito della sperimentazione).

La “sinistra del bel tempo che fu” ha, ancora una volta, sbagliato a scegliere il campo di battaglia. Si è impuntata sulla nuova disciplina dei controlli a distanza difendendo, nella sostanza, l’impostazione contenuta nello Statuto dei lavoratori, ben sapendo che quella norma aveva permesso di considerare illegittimi dei licenziamenti di lavoratori sorpresi a rubare attraverso i circuiti di telecamere interne.

In polemica con Massimo D’Alema, Matteo Renzi ha sostenuto che – se da presidente del Consiglio nel 1998, il leader Maximo avesse seguito l’esempio di Tony Blair e di Gerard Schroeder, anziché arrendersi a Sergio Cofferati – il jobs act ci sarebbe da vent’anni. Ma allora avevano ragione quanti, da vent’anni, sostenevano che il mercato del lavoro doveva diventare ancora più flessibile?

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