Non ho mai disconosciuto il talento di Silvio Berlusconi. Ma un leader politico che crede soltanto in se stesso e nella propria fortuna, anche se ha una tempra prometeica, in realtà è fragile dentro. Nel senso che il suo mondo non è relazionato ad altro che alla propria affermazione personale. Quando essa declina, va a rotoli anche il progetto strategico di cui era l’anima.
Ora molti suoi figli, figliocci e figliastri gli consigliano di farsi da parte, proprio per salvaguardare la storia della destra italiana nell’ultimo ventennio. Ma questa storia è segnata anche da una pochezza di valori impressionante messa in mostra da quella borghesia imprenditoriale a cui si era rivolto il Cavaliere per la sua ben presto abortita “rivoluzione liberale”.
I nuovi capitani coraggiosi della finanza hanno occupato la scena. L’antica razza padrona del Nord si è accodata (con qualche mal di pancia). Però mi chiedo: se oggi c’è un (vergognoso) fuggi fuggi da Forza Italia, non è anche perché qualcuno ha insegnato ai transfughi che il fine, cioè il successo e l’arte del galleggiamento, giustifica i mezzi?
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La crisi e la disoccupazione possono creare impensabili paradossi. Pur abolite dalla Costituzione del 1950, in India le caste e le sottocaste superiori chiedono di essere “degradate” in quelle inferiori. Soprattutto l’etnia Patidar (circa un quinto della popolazione), composta da proprietari terrieri, agricoltori e commercianti, rivendica gli stessi benefici di welfare di cui godono gli “intoccabili” dalit (nell’accesso al lavoro, all’istruzione, agli uffici pubblici). Beninteso, in Italia c’è la casta immaginaria raccontata da Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo (che ha spianato la strada a Grillo), ma non esistono le caste. Esistono però le corporazioni. Ebbene, ce le vedete voi le corporazioni degli avvocati, dei farmacisti, dei notai chiedere di essere retrocesse nella “classe dei dipendenti” per poter usufruire della Naspi (nuova assicurazione sociale per la stabilità dell’impiego)?